- di Leopoldo Nascia -
La continuità nelle politiche di austerità è stata più forte dei cambi a palazzo Chigi. Dalla cacciata di Berlusconi tutti gli indicatori economici hanno segnato un arretramento. Nonostante gli ottanta euro in busta paga che fanno vincere le elezioni europee ma non aggiungono nulla alla domanda dell’economia.
Sette anni di crisi e tre anni e mezzo di scossoni politici, col susseguirsi dei governi Monti, Letta e Renzi, non hanno tirato fuori l’Italia dalla depressione.
Le politiche di austerità imposte dall’Unione europea sono rimaste la stella polare della nostra politica economica, una continuità più forte dei cambi a Palazzo Chigi. Nel grafico [in fondo pagina] presentiamo un confronto tra i risultati economici dei tre ultimi governi, che mostrano un Prodotto interno lordo in continua discesa: se mettiamo a 100 il Pil alle dimissioni di Berlusconi, nel novembre 2011, ora siamo a 96 e la ripresa c’è solo nei rosei dati di previsione per il 2015, come c’era nelle altrettanto rosee – e sbagliate - previsioni di tutti gli ultimi tre anni.
La situazione politica dei tre ultimi governi è stata da un lato estremamente diversa – per Monti la burrascosa fine del ventennio berlusconiano, per Letta il convulso compromesso dopo le elezioni che non hanno prodotto una maggioranza, per Renzi la promessa di un “nuovo” che rottamava il passato. Ma d’altro lato l’orizzonte politico è rimasto lo stesso: sempre governi di “grande coalizione” tra centrodestra e centrosinistra, e sempre l’austerità all’ordine del giorno.
Tre anni e mezzo fa ci sono state le dimissioni di Berlusconi - che aveva fino all’ultimo negato l’esistenza della crisi – e il governo Monti si trovava a gestire il momento più difficile: crisi dell’euro, contagio da Grecia e Portogallo, spread alle stelle, politica dettata da Bruxelles, Berlino e Francoforte. I risultati sono stati il crollo del Pil, sceso del 3% nell’arco del governo Monti, con la produzione industriale crollata dell’8% e i consumi delle famiglie del 7%, 32% in più di disoccupati, la spesa pubblica che va in rosso e il rapporto debito/Pil che balza dal 116 al 126%. Da allora la depressione è calata sull’Italia.
L’inarrestabile retromarcia del Pil riporta il paese al livello di reddito del 1999, esattamente come avviene per la Grecia. La produzione industriale resta ferma sia con Letta che con Renzi e se la confrontiamo con il 2008, prima della crisi, la caduta è di oltre il 20%. Tutti confidano nelle esportazioni, che crescono però di appena il 2% in tre anni e mezzo, scontando la stagnazione dei paesi europei e la sempre più agguerrita concorrenza asiatica in molti settori del made in Italy.
Stessa storia per i consumi. La perdita del 7% rispetto all’uscita di scena di Berlusconi si mantiene anche ai tempi di Letta e Renzi:gli “ottanta euro” ai redditi più bassi fanno vincere le elezioni europee ma non aggiungono nulla alla domanda dell’economia e alle tasche degli italiani.
Le conseguenze della depressione colpiscono soprattutto il lavoro. Il numero di occupati con la crisi precipita, la caduta più forte è sotto il governo Monti, e la ripresa ora è minima. I disoccupati in tre anni aumentano di un milione - con Renzi siamo a 3,3 milioni di persone che cercano lavoro senza trovarlo. Anche qui la continuità delle politiche - della riforma Fornero al Jobs act - è implacabile: il lavoro sempre meno costoso per le imprese, più flessibile e con sempre meno garanzie. Ma tutto questo ha avuto zero effetti sulla crescita degli occupati. Al contrario,esplodono i giovani che non studiano e non lavorano (tra i 15 e i 24 anni), più 18% in tre anni e mezzo, con un’accelerazione proprio sotto Matteo Renzi.
Tutto questo lo si fa da tre anni e mezzo in nome del risanamento dei conti pubblici e della riduzione del debito pubblico. Ma la crisi dell’euro e la depressione hanno peggiorato i conti pubblici: durante i governi Prodi prima della crisi la spesa pubblica mostrava un avanzo primario – il saldo prima del pagamento degli interessi sul debito.
I conti sono stati compromessi dalle politiche di spesa e riduzione delle tasse dell’ultimo governo Berlusconi, e il saldo primario è diventato negativo con Monti e Letta, fino al ritorno all’avanzo grazie ai tagli di spesa di Matteo Renzi. Ma meno deficit non significa un minor peso del debito pubblico: il rapporto debito/Pil è cresciuto senza soste, in questi tre anni dal 116 al 132%. Il debito italiano – dopo quello tedesco il secondo a livello europeo per dimensioni – non ha più una dinamica esplosiva, anche grazie alla, ma la depressione ha aggravato il suo peso sull’economia.
I risultati del primo anno di governo Renzi non si scostano in misura significativa da quelli che – in condizioni internazionali più difficili – avevano ottenuto Monti e Letta. Ora abbiamo una politica più generosa della Bce e la riduzione degli spread, il deprezzamento dell’euro e il calo del prezzo del petrolio, c’è stato anche il semestre europeo a guida italiana. Ma di tutto questo non c’è traccia nei dati dell’economia italiana a un anno dall’arrivo diMatteo Renzi. La depressione continua, l’austerità è la stessa del passato, le politiche – sul fisco, il lavoro, la produzione – non mutano di segno. Il cambio di retorica può ingannare, forse, solo fino a un certo punto.
(20 febbraio 2015)
fonte: www.sbilanciamoci.info.
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