La situazione attuale ricorda molto quella del 1992, l'anno in cui sul panfilo“Britannia” si organizzò la più grande opera di spoliazione di ricchezza pubblica che un paese occidentale ricordi; aziende statali come IRI, INA e IMI vennero trasformate da enti pubblici in Società per Azioni con un decreto legge elaborato in 3 ore, come ha ricordato l'avv. Natalino Irti.
Seguì poi la stagione di Tangentopoli e l'industria statale italiana, esposta al pubblico ludibrio come un ricettacolo di corruzione e malaffare, venne smembrata e svenduta; nel suo libro “Assalto alla diligenza”, Gianluigi Da Rold – storico giornalista del Corriere della Sera – scrive: “[...] il messaggio che arriva al grande pubblico è quello di una classe politica profondamente corrotta, che letteralmente saccheggia l'apparato industriale statale, con la complicità dei manager pubblici, e che impone balzelli ai 'bravi' industriali privati.[...] Da questa analisi schematica, nasce come risposta immediata l'urgenza di privatizzare, di smantellare il colosso industriale pubblico, di mettere in vendita le aziende dei grandi enti di Stato. Su quest'ultimo punto, che è realmente nevralgico, il dibattito mediatico si limita solamente a delle enunciazioni, a un dato di fatto inevitabile e scontato”.
Oggi come allora, il nostro Paese è fatto oggetto della concupiscenza delle grandimultinazionali e banche d'affari straniere che hanno piazzato i loro avatar nelle posizioni ottimali, sperando che ricalchino le gloriose vestigia di Prodi, Draghi, Ciampi, Amato e degli altri ardimentosi “padri della patria”.
Questa volta il compito si presenta più difficile per una serie di motivi: innanzitutto la presa di coscienza – ancorché confusa e frammentata – da parte di un'ampia fetta della popolazione sulla inanità delle privatizzazioni, quella salvifica medicina che hacondannato il Paese a un declino industriale di cui non si riesce a intravedere la fine; rispetto a vent'anni fa, la possibilità di accedere alle informazioni – altrimenti sottaciute o depotenziate – è cresciuta esponenzialmente grazie al Web, con blogs e social networks che consentono la costruzione di potenziali movimenti d'opinione.
Proprio l'avvento di Internet ha consentito lo smascheramento della menzogna autoinflittaci dal circuito mainstream italico che ha sempre tratteggiato il Belpaese come incapace di decidere autonomamente della propria sorte, bisognoso delle amorevoli e disinteressate cure dei fratelli alemanni, la sola genìa capace di mondare i nostri atavici peccati, perché gli italiani sono corruttori irredimibili, Untermenschen per definizione.
“La realtà è il più abile dei nemici”, scrisse Marcel Proust ne “La Recerche”, un aforisma che – oggigiorno - ben si attaglia al “Barnum” politico-mediatico nostrano, una colluvie di clowns e bagonghi riccamente assortita, immemori prosseneti che continuano vanamente a nasconderla, considerando l'oramai facile reperibilità di notizie che vedono la Germania pagare - come e più di altri - tangenti; una vicenda di finanziamenti illeciti accumulati durante i suoi 16 anni di regnocostarono la carriera politica ad Helmut Kohl: nei fondi neri del suo partito – laCDU – c'era anche la maxi-tangente del mercante d'armi Karl Heinz Schreiber, mediatore delle mazzette per la fornitura di 36 panzer tedeschi all'Arabia Saudita, una “trattenuta” da 1 milione di marchi.
Come ha ammesso lui stesso, l'attuale Ministro delle Finanze Wolfgang Schauble fece da tramite, nel 1994, per una tangente consegnata a Schreiber alla CDU.
Abbiamo poi la “pista greca” con il colosso Thyssen-Krupp che – attraverso laHowaldtswerke Deutsche Werft (HDW), leader della cantieristica navale rilevata nel 2005 – è al centro delle indagini elleniche sul fondo nero destinato alla corruzione di politici - non ultimo l'ex Ministro della Difesa Akis Tsochatzopoulos, condannato a 20 anni - per l'aggiudicazione della commessa relativa a 4 sottomarini Type-214; sulla vicenda, dal 2011, indaga anche la Procura di Monaco di Baviera, per presunte tangenti ammontanti a circa 55 milioni di euro.
Dopo lo scandalo Siemens, un altro filone d'inchiesta si è aperto sull'asse Berlino-Atene.
L'ex numero uno della Direzione Armamenti della Difesa greca, Antonis Kantà, ha rilasciato alcune dichiarazioni che stanno facendo traballare la flemmatica sicumera teutonica: circa 18 milioni di euro sarebbero stati dirottati verso funzionari greciper “favorire” l'acquisto di sottomarini Poseidon; nel computo totale ci sono anche170 carri armati Leopard 2A6 HEL della Krauss-Maffei Wegmann (KMW), per i quali Kantà avrebbe ricevuti un totale di 1,7 milioni di euro da un intermediario greco.
Intanto l'ex plenipotenziario di Siemens, Heinrich Von Pierer, è stato convocato dalla magistratura ateniese per essere interrogato: su di lui e altri 3 alti funzionari aziendali pende l'accusa di corruzione e riciclaggio di denaro.
Nel marzo 2012 invece, l'ex controllata Thyssen Rheinmetall di Dusseldorf è finita sulla “lista nera” dell'India, con l'accusa di tangenti ai vertici dell'Ordnance Factories Board(OFB), le fabbriche statali della Difesa di Nuova Delhi; anche in Portogallo si sta indagando su un presunto “contributo” di 30 milioni di euro pagati dallaMAN/Ferrostaal di Essen per l'acquisto – da parte di Lisbona – di 2 sommergibili.
Non si può dire che il governo tedesco stia lesinando risorse economiche e politiche di “pubbliche relazioni”; la linea programmatica della Merkel è orientata alla più pura realpolitik e tutto il processo decisionale sulle armi è di competenza del Consiglio per la Sicurezza federale che, in modo piuttosto opaco, approva le vendite degli armamenti in riunioni ristrette, alle quali prendono parte il Cancelliere, alcuni ministri e agenti dei servizi segreti.
Il risultato vede Berlino esportare un po' dappertutto, con il 40% del totale venduto a Paesi fuori dalla NATO, dal Brasile, all'Arabia Saudita passando perfino per Israele.
Anche i francesi – con il salapuzio Sarkozy e l'affaire “Karachi” – e gli inglesi – con Tony Blair (che bloccò questa inchiesta su BAE Systems per “preservare la sicurezza nazionale e internazionale”) e i fondi neri per corrompere i dignitari sauditi (114 milioni di dollari) – hanno fornito le loro personalissime declinazioni del verbo “corrompere”.
Si potrebbe essere portati a pensare che, di fronte a un livello di corruzione così diffuso, la Commissione Europea si sia preoccupata di dare delle indicazioni o dei suggerimenti per contrastare un fenomeno tanto deleterio e distorsivo per la libera concorrenza, ma tutto si risolverebbe in uno sterile esercizio di ottimismo, considerando che nessun documento presentato reca un qualsivoglia accenno in proposito.
Si potrebbe essere portati a pensare che, di fronte a un livello di corruzione così diffuso, la Commissione Europea si sia preoccupata di dare delle indicazioni o dei suggerimenti per contrastare un fenomeno tanto deleterio e distorsivo per la libera concorrenza, ma tutto si risolverebbe in uno sterile esercizio di ottimismo, considerando che nessun documento presentato reca un qualsivoglia accenno in proposito.
Passiamo ora in rassegna il “Bruxelles-pensiero” sul ruolo che dovrebbero avere le Piccole e Medie Imprese nella nuova architettura militare europea; dopo il consueto caleidoscopio di ovvietà - sull'importanza che esse rivestono in termini di innovazione e competitività – che leggiamo nelle due Comunicazioni della Commissione Europea, contraddistinte da una verbosità leziosa e inconcludente, le notizie importanti ci arrivano invece dallo studio di Europe Economics “ Studio sulla competitività delle PMI europee nel settore della Difesa”.
Quale sia l'aria che tira per le PMI lo si capisce subito nell'introduzione a pag. 1, dove al punto 1.3 leggiamo: “L'adozione in Legge del Package Defence (le 2 Direttive ndr.) ha il potenziale di generare significativi cambiamenti strutturali nel settore delle industrie militari europee che hanno, fino ad ora, operato all'interno di mercati nazionali relativamente protetti[...] Alcune - forse molte – delle attuali PMI non sopravviveranno, sia perché saranno sostituite da fornitori più grandi ed efficienti, sia perché saranno scomparse le stesse aziende più grandi da esse rifornite[...].
Tutti i proclami e il continuo salmodiare “crescita-competitività-occupazione” nascondono la cruda, futura realtà: in un mercato come quello della difesa che è rimasto – per motivi di sicurezza – relativamente protetto, l'apertura indiscriminata alle grandi multinazionali del settore - politicamente orientato dalle Nazioni più forti verso massive fusioni - porterà alla nascita di pochissimi operatori economici in regime di oligopolio e avrà l'effetto di uno tsunamisulle PMI.
A tutto questo aggiungiamo il peso della legislazione europea che – come ha più volte rimarcato il giurista Luciano Barra Caracciolo – è stata costruita “pensando alle esigenze”delle grandi corporations, con una serie infinita di norme e adempimenti che sono assolutamente insormontabili per realtà semi-artigianali e di nicchia.
Lo studio continua con un profluvio di tabelle, acronimi e dati con cui, probabilmente, si vuole giustificare il costo della consulenza presso il committente.
I punti chiave arrivano a pag.104 : nel paragrafo 7.2 si ribadisce quanto già affermato nell'introduzione, parlando questa volta ancora più esplicitamente di “non sopravvivenza in un mercato più aperto”; si nota altresì che le PMI “hanno un peso relativamente modesto – tra l'11% e il 17% - nelle vendite di materiale militare in Europa, operano essenzialmente nei loro rispettivi mercati domestici come subappaltatori, con relazioni di lunga data con i loro clienti ed esportano poco”.
E' evidente che si ripeterà in questo particolare settore quello che è già successo e succede tuttora, ovvero che gli squilibri strutturali all'interno dell'Eurozona giocheranno un ruolo decisivo a favore dei Paesi in posizioni di forza, il tutto aggravato dai vincoli di bilancio e dalla stretta creditizia che renderanno i Paesi periferici simili a dei protettorati.
E' oltremodo scorretto scrivere in centinaia di pagine che le PMI sono essenziali, che aprendosi migliorerebbero la competitività quando le conclusioni sono ben altre; del resto se il futuro della Difesa europea va verso grandi gruppi sovranazionali, questi ultimi “avranno le dimensioni e le risorse per far fronte alle esigenze e questo creerà una barriera allo sviluppo delle PMI” ; paragr. 7.5 (pag.105).
Per un paese come l'Italia che, dal Rinascimento ai giorni nostri, ha costruito le proprie fortune sull'evoluzione dell'artigianato e delle PMI – spesso osteggiati, se non trattati alla stregua di neoplasie – la situazione è destinata a deteriorarsi in maniera irreversibile; e pensare che anche codesto studio ne riconosce l'eccezionalità, come leggiamo al punto 3.14 (pag.35): “[...]La sola differenza notevole tra i Paesi è chele PMI italiane assicurano delle quote di valore aggiunto molto elevate nelle armi e munizioni, nella costruzione di navi e relativa manutenzione; questo può far riflettere sul ruolo che le PMI giocano nell'economia italiana[...]”.
E' quindi politica suicida rimanere impantanati in un'Unione monetaria e commerciale così penalizzante per le caratteristiche italiane; nell'appendice n°4 (dal paragrafo A4.38 ; pagg. 148-149) dedicata all'Italia, vengono analizzate – più in dettaglio – le grandi potenzialità delle PMI italiane che operano sia come subappaltatori per le aziende più grandi, sia con produzioni di nicchia in equipaggiamenti speciali, materiali e supporto logistico: moduli abitativi (Cogim eCorimec), sistemi di decontaminazione (Cristianini), sistemi di navigazione (GEM Elettronica) ecc.
Un altro punto di forza che viene loro riconosciuto è l'abilità di rispondere a shock esterni, grazie alla struttura molto flessibile e alla capacità di operare più internazionalmente.
Questa sì che è una sorpresa!
Uno degli odierni miti pseudo-economici che ci viene artatamente somministrato riguarda proprio l'ordine di grandezza dei soggetti coinvolti che – per avere successo nel mondo globalizzato, Essi dicono – deve necessariamente essere orientato verso maxi-aggregati industriali; adesso, invece, apprendiamo che la miglior risposta a un evento esogeno sfavorevole viene da strutture produttive snelle e materiate di flessibilità, quella simpatica qualità che i parrucconi di Bruxelles lodano solamente se applicata al mondo del lavoro.
Sono risibili le soluzioni che la Commissione Europea pensa di adottare per risolvere i problemi derivanti dalla chiusura – Loro le definiscono “ristrutturazioni” - di centinaia di PMI; si parla, come al solito, di flessibilizzare il lavoro e di lenire temporaneamente le criticità attraverso il supporto dell'EUROPEAN SOCIAL FUND (ESF).
Una piccola visita al sito dell'ESF fuga ogni possibile dubbio; sotto il titolo “Carriere Flessibili” troviamo testuali parole: “Man mano che il cambiamento si trasforma in un vero e proprio stile di vita a causa della globalizzazione, i lavoratori dell'UEdevono diventare più adattabili e aperti al nuovo, in modo da migliorare la propria occupabilità[...].
Lo scrivere simili idiozie, impensabili solo pochi lustri fa, in un contesto ufficiale è volto a istituzionalizzare e normalizzare agli occhi delle persone una situazione che normale non è; significativa è poi la fotografia di un lavoratore – apparentemente un over 70 – che ci ricorda, in una sorta di sinistro messaggio subliminale, che per sopravvivere dovremo lavorare fino alla fine dei nostri giorni: Memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris.
Orbene, sembra che questo Fondo Sociale Europeo dovrà farsi carico di parecchie magagne: ne sarà all'altezza?
Parrebbedi no, visto che ad inizio ottobre 2012 il presidente della Commissione Bilancio del Parlamento Europeo – il francese Alain Lamassoure – denunciava: “Il Fondo Sociale Europeo non ha più un euro, il programma Erasmus finirà i soldi dalla prossima settimana, i fondi UE per Ricerca e Innovazione resteranno senza risorse a fine ottobre”.
Con la deflazione già entrata dalla porta principale dell'Eurozona risulta poco credibile che oggi, a poco più di un anno di distanza, la dotazione del Fondo sia stata implementata in misura sufficiente; va poi sottolineato che – in base ai nuovi regolamenti e direttive approvati dal Parlamento Europeo – si potrà arrivare alla sospensione dei fondi in caso di squilibrio macroeconomico nazionale o di deficit di bilancio, reiterando le pratiche ricattatorie già in uso verso i Paesi in difficoltà.
Come accennato in precedenza, la Direttiva 2009/43 è quella più interessante del Package Defence, vediamone il motivo.
Il documento - “che semplifica le modalità e le condizioni dei trasferimenti all'interno della
Comunità di prodotti per la difesa” - si occupa essenzialmente della realizzazione di un mercato interno che elimini gli ostacoli alla libera circolazione di merci e servizi, e consta di una serie di articoli e di un allegato comprendente l'elenco dei prodotti per la difesa.
Il fatto che rende così interessante questa Direttiva è che l'allegato in questione, oltre alle armi “convenzionali” (fucili, munizioni, carri armati ecc.), vede la presenza di agenti biologici, radioattivi e agenti per la guerra chimica, come i gas nervini (Sarin, Soman, Tabun, VX), gas vescicanti come ipriti (gas mostarda) e lewisiti ecc. (punto ML7 pag.14 e seg.), tutti elementiteoricamente messi al bando dalla Convenzione sulla Proibizione delle armi chimiche di Parigi del 1993, ed entrata in vigore a fine aprile 1997.
La presenza di armi chimiche all'interno di un registro omnicomprensivo che reca nell'intestazione “ELENCO DEI PRODOTTI PER LA DIFESA” deve indubitabilmente far pensare che tali sostanze soggiacciano alle modalità di commercio e trasferimento degli altri sistemi d'armamento dell'elenco stesso: l'articolo 2 – Ambito d'applicazione: “La presente Direttiva si applica ai prodotti per la difesa di cui all'allegato” e l'articolo 13 – Adattamento dell'allegato: “La Commissione aggiorna l'elenco dei prodotti per la difesa di cui all'allegato di modo che esso corrisponda ALL'ELENCO COMUNE DELLE ATTREZZATURE MILITARI DELL'UNIONE EUROPEA” non dovrebbero lasciare adito a dubbi.
http://orizzonte48.blogspot.it/2014/05/fortezza-europa-3-dal-britannia-alle.html
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