Lo tsunami silenzioso della fame: se la finanza domina l’agricoltura
Eresia è il far credere che il grano sia per lo speculatore e non per l'affamato.
BENEDETTA SCOTTI · Da cosa dipende il prezzo del grano? Dal mitico equilibrio tra domanda e offerta? Se questa è la risposta che l’economia mainstream continua a propinare, non sono pochi gli economisti che avrebbero qualcosa da obiettare. Come l’elevata volatilità dei prezzi agricoli degli ultimi anni ha potuto dimostrare, è probabile che una delle forze che maggiormente influenza il valore delle derrate sia, ancora una volta, la finanza speculativa.
Ignoto a molti è il fatto che negli ultimi due decenni gli investitori hanno trovato un business altamente lucrativo nel mondo agricolo, non grazie a opportunità di investimenti “produttivi”, bensì grazie a meccanismi che permettono, di fatto, di speculare sul prezzo di grano, mais, riso e via dicendo, incassando ingenti profitti. Gli strumenti alla base di questo fiorente commercio sono i famigerati derivati, contratti il cui valore dipende dal bene “sottostante” al quale fanno riferimento, in questo caso i beni agricoli. Sono una ventina le piazze finanziarie che ospitano mercati regolamentati di “futures” agricoli, ovvero contratti tramite cui gli investitori si impegnano a comprare o a vendere nel futuro un dato prodotto, in una data quantità e ad un prezzo prestabilito al momento della conclusione del contratto.
Nati originariamente negli Stati Uniti, più precisamente a Chicago, per permettere ai produttori di assicurarsi (in inglese “hedging”) contro e eventuali drastici cambiamenti dei prezzi, questi derivati hanno perso questo diretto legame con la base produttiva a partire dalla fine dagli anni Novanta, culminati con l’abolizione del Glass Steagall Act. La liberalizzazione della finanza e la proliferazione di mercati non regolamentati (i mercati over-the-counter) furono abbinate alla convinzione che, data la crescita dell’economia e della popolazione a livello mondiale, la domanda di materie prime e prodotti agricoli sarebbe salita enormemente, garantendo un mercato altamente liquido, cosa assai gradita agli investitori. Il numero di attori finanziari che operano sui commodity markets (dove commodity sta ad indicare un bene cosiddetto “indifferenziato” quale puo essere il grano o il petrolio) per ragioni speculative e non più commerciali è, così, cresciuto vertiginosamente. Secondo un report delle Nazioni Unite, che come altri organismi internazionali quali la FAO e la Banca Mondiale ha, tuttavia, assunto una posizione ambigua in materia, tra il 2007 e il 2012 banche e fondi speculativi hanno quasi duplicato i loro investimenti nel “food commodity”, passando da 65 a 126 miliardi di dollari. Come stima il World Development Movement, il 60% del mercato dei futures sul grano è dominato dai grandi protagonisti della finanza, a partire dalle banche d’affari, da Goldman Sachs a Morgan Stanley.
Per quanto i sostenitori dell’efficienza dei mercati proclamino che un certo grado di speculazione sia necessaria per il corretto funzionamento del mercato stesso (perché sarebbero gli speculatori a garantire un corretto livello dei prezzi, sfruttando ogni opportunità di profitto), gli eventi degli ultimi anni suscitano non pochi dubbi sul beneficio dell’attività speculative. Come riporta un recente rapporto del Parlamento Europeo, i prezzi dei beni agricoli sono più che raddoppiati tra il 2002 e il 2013, con picchi storici a metà del 2008 e all’inizio del 2011 quando i prezzi sono saliti su base mensile a ritmi vertiginosi. Ad esempio, tra marzo ed aprile del 2008, il prezzo internazionale del riso aumentò del 51%. Sebbene non sia ancora stata dimostrata empiricamente la causalità diretta tra inflazione agricola e ed esplosione del food commodity market, la coincidenza temporale dei due fenomeni legittima a pensare che si tratti più di una semplice coincidenza. Così come sollevano dubbi quelle spiegazioni che attribuiscono a fattori reali (ossia domanda e offerta) la ragione di una tale volatilità, dal momento che i cambiamenti naturali provenienti dall’economia reale molto raramente sono così repentini a livello globale, mentre possono essere istantanei gli shock che hanno origine nel mondo finanziario.
Se la causalità non è stata ancora dimostrata, i fatti parlano chiaro. Se è vero che un aumento dei prezzi può favorire i produttori agricolo, è anche vero che ciò può innescare drammatiche conseguenze per le popolazioni meno abbienti o in via di sviluppo che spendono un’elevata percentuale del loro limitato budget per importare beni di prima necessità, quali gli alimenti. Come stima l’OCSE, un aumento del 10% di tutti i cereali si traduce in un aumento da 4.5 miliardi di dollari sul conto da pagare per i paesi importatori, che non hanno mancato di manifestare il loro malcontento. Tra il 2007 e il 2008 l’inflazione agricola scatenò rivolte popolari dal Messico al Bangladesh che l’Onu definì un “silenzioso tsunami di fame” di cui nessuno ha più memoria. Eresia è il far credere che il grano sia per lo speculatore e non per l’affamato.
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