Patrick Cockburn – 22 agosto 2014
[Questo saggio è estratto dal primo capitolo del nuovo libro di Patrick Cockburn, The Jihadis Return: ISIS and the New Sunni Uprising [Il ritorno dei jihadisti: l’ISIS e la nuova rivolta sunnita], con speciali ringraziamenti all’editore OR Books. La prima sezione è una nuova introduzione scritta per TomDispatch].
Ci sono elementi straordinari nell’attuale politica statunitense in Iraq e in Siria che suscitano un’attenzione sorprendentemente scarsa. In Iraq gli USA stanno conducendo attacchi aerei e inviando i propri consiglieri e addestratori a contribuire a respingere l’avanzata dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (meglio noto come ISIS) verso la capitale curda. Gli Stati Uniti farebbero presumibilmente lo stesso se l’ISIS circondasse o attaccasse Baghdad. Ma in Siria la politica di Washington è l’esatto opposto: là i principali avversari dell’ISIS sono il governo siriano e i curdi siriani nelle loro enclave settentrionali. Entrambi sono sotto l’attacco dell’ISIS, che si è impossessato di circa un terzo del territorio, compresa la maggior parte delle sue strutture di produzione di petrolio e gas.
Ma la politica statunitense, dell’occidente europeo, dei sauditi e del Golfo Arabo consiste nel rovesciare il presidente Bashar al-Assad, e capita che sia anche la politica dell’ISIS e di altri jihadisti in Siria. Se Assad cadrà, allora ne beneficerà l’ISIS, visto che sta o sconfiggendo o assorbendo il resto dell’opposizione armata siriana. A Washington e altrove si finge che esista un’opposizione siriana “moderata” aiutata da Stati Uniti, Qatar, Turchia e dai sauditi. E’, tuttavia, debole e sta diventando più debole ogni giorno che passa. Presto il nuovo califfato potrà estendersi dal confine iraniano al Mediterraneo e l’unica forza che potrà forse impedire che ciò accada è l’esercito siriano.
La realtà della politica statunitense consiste nell’appoggiare il governo dell’Iraq, ma non quello della Siria, contro l’ISIS. Ma uno dei motivi per cui quel gruppo è stato in grado di diventare così forte in Iraq è che può attingere alle sue risorse e ai suoi combattenti in Siria. Non tutto ciò che è andato storto in Iraq è stato colpa del primo ministro Nouri al-Maliki, com’è invece diventata l’opinione politica e mediatica prevalente in occidente. Politici iracheni mi sono andati dicendo negli ultimi due anni che l’appoggio straniero alla rivolta sunnita in Siria avrebbe inevitabilmente destabilizzato anche il loro paese. E’ quello che ora è successo.
Proseguendo con queste politiche contraddittorie nei due paesi gli USA hanno assicurato che l’ISIS rafforzasse i suoi combattenti in Iraq dalla Siria e viceversa. Sin qui Washington è riuscito a sottrarsi alla colpa dell’ascesa dell’ISIS attribuendola interamente al governo iracheno. In realtà ha creato una situazione in cui l’ISIS può sopravvivere e può prosperare bene.
L’uso dell’etichetta di al-Qaeda
Il forte aumento della forza e della portata delle organizzazioni jihadiste in Siria e in Iraq è in generale passato sotto silenzio sino a tempi recenti da parte dei politici e dei media dell’occidente. Uno dei principali motivi di ciò è che i governi occidentali e le loro forze di sicurezza definiscono in senso stretto la minaccia jihadista come le forze direttamente controllate dalla centrale di al-Qaeda o dal “cuore” di al-Qaeda. Ciò consente loro di presentare un quadro dei loro successi nella cosiddetta guerra al terrorismo molto più brillante di quanto autorizzi la situazione sul campo.
In realtà l’idea che i soli jihadisti da temere siano quelli che hanno la benedizione ufficiale di al-Qaeda è ingenua e illusoria. Ignora il fatto, ad esempio, che l’ISIS è stato criticato dal leader di al-Qaeda Ayman al-Zawahiri per la sua violenza e settarismo eccessivi. Dopo aver parlato, in precedenza quest’anno, con una varietà di ribelli jihadisti siriani non direttamente affiliati ad al-Qaeda nella Turchia sud-orientale, una fonte mi ha detto che “senza eccezione hanno tutti espresso entusiasmo per gli attacchi dell’11 settembre e hanno sperato che lo stesso accada in Europa come negli USA”.
I gruppi jihadisti ideologicamente vicini ad al-Qaeda sono stati rietichettati da moderati se le loro azioni sono ritenute favorevoli agli scopi politici statunitensi. In Siria gli statunitensi hanno appoggiato un piano dell’Arabia Saudita di costruire un “Fronte meridionale” con sede in Giordania che sarebbe stato ostile al governo di Damasco di Assad e contemporaneamente ostile ai ribelli di tipo al-Qaeda nel nord e nell’est. La potente, ma supposta moderata, Brigata Yarmouk, apparentemente destinataria programmata di missili antiaerei dall’Arabia Saudita, avrebbe dovuto essere l’elemento guida di questa nuova formazione. Ma numerosi video mostrano che la Brigata Yarmouk ha combattuto frequentemente in collaborazione con lo JAN, un gruppo ufficialmente affiliato ad al-Qaeda. Poiché era probabile che, nel mezzo dei combattimenti, questi due gruppi condividessero le loro munizioni, Washington ha in effetti consentito che armamenti avanzati fosse passati al suo nemico jihadista. Dirigenti iracheni confermano di aver catturato armi sofisticate a combattenti dell’ISIS in Iraq, originariamente fornite da potenze esterne a forze considerate anti al-Qaeda in Siria.
Il nome al-Qaeda è stato sempre attribuito in modo flessibile nell’identificare un nemico. Nel 2003 e 2004 in Iraq, mentre montava l’opposizione irachena armata all’occupazione a guida statunitense e britannica, dirigenti statunitensi hanno attribuito la maggior parte degli attacchi ad al-Qaeda, anche se molti erano attuati da gruppi nazionalisti e baatisti. Una propaganda simile ha contribuito a convincere quasi il 60% degli elettori prima dell’invasione irachena che c’era un collegamento tra Saddam Hussein e i responsabili dell’11 settembre, nonostante l’assenza di qualsiasi prova al riguardo. Nello stesso Iraq, in realtà nell’intero mondo mussulmano, queste accuse hanno avvantaggiato al-Qaeda esagerando il suo ruolo nella resistenza all’occupazione statunitense e britannica.
Le tattiche propagandistiche esattamente opposte sono state impiegate dai governi occidentali nel 2011 in Libia, quando è stata minimizzata ogni somiglianza tra al-Qaeda e i ribelli appoggiati dalla NATO nel rovesciamento del leader libico Muammar Gheddafi. Solo i jihadisti che avevano un contatto operativo diretto con il “cuore” di al-Qaeda di Osama bin Laden sono stati considerati pericolosi. La falsità della pretesa che i jihadisti anti Gheddafi in Libia fossero meno minacciosi di quelli in contatto diretto con al-Qaeda è stata rivelata energicamente, anche se tragicamente, quando l’ambasciatore statunitense Chris Stevens è stato ucciso da combattenti jihadisti a Bengasi nel settembre 2012. Erano gli stessi combattenti lodati dai governi e dai media occidentali per il loro ruolo nella rivolta contro Gheddafi.
Al-Qaeda immaginata come la mafia
Al-Qaeda, più che un’organizzazione, è un’idea e lo è da lungo tempo. Per un quinquennio dopo il 1996 ha avuto in effetti quadri, risorse e campi in Afghanistan, ma sono stati eliminati dopo il rovesciamento dei talebani nel 2001. Successivamente il nome di al-Qaeda è diventato principalmente una parola d’ordine, un insieme di credenze islamiche, incentrato sulla creazione di uno stato islamico, sull’imposizione della sharia, un ritorno a costumi islamici, la sottomissione delle donne e lo scatenamento di una guerra santa contro altri mussulmani, specialmente gli sciiti, che sono considerati eretici meritevoli di morte. Al centro di questa dottrina bellicista c’è un’enfasi sul sacrificio di sé e il martirio come simbolo di fede e devozione religiosa. Ciò si è tradotto nell’utilizzo di credenti non addestrati ma fanatici come attentatori suicidi, con effetti devastanti.
E’ sempre stato nell’interesse degli USA e di altri governi che al-Qaeda fosse considerato come una struttura di comando e controllo simile a un mini-Pentagono e alla mafia negli Stati Uniti. Questa è un’immagine confortante per il pubblico perché gruppi organizzati, per quanto demoniaci, possono essere scovati ed eliminati mediante incarcerazione o la morte. Più allarmante è la realtà di un movimento i cui aderenti si auto-arruolano e possono sorgere dovunque.
La raccolta di militanti di Osama bin-Laden, che egli non ha chiamato al-Qaeda se non dopo l’11 settembre, dodici anni fa era soltanto uno di molti gruppi jihadisti. Ma oggi le sue idee e i suoi metodi sono predominanti nei gruppi jihadisti per il prestigio e la pubblicità ottenuti con la distruzione delle Torri Gemelle, la guerra in Iraq e la sua demonizzazione da parte di Washington come fonte di ogni male anti-statunitense. Oggi c’è una riduzione delle differenze nelle credenze dei jihadisti, indipendentemente dal fatto che siano o no collegati alla centrale di al-Qaeda.
Non sorprendentemente i governi preferiscono l’immagine fantasiosa di al-Qaeda perché consente loro di proclamare vittorie quando riescono a uccidere i suoi membri e alleati più noti. Spesso agli eliminati sono attribuiti gradi quasi militari, come “capo delle operazioni”, per amplificare il significato della loro scomparsa. Il culmine di questo aspetto pesantemente pubblicizzato ma largamente irrilevante della “guerra al terrorismo” è stato l’uccisione di bin Laden ad Abbottabad, in Pakistan, nel 2011. Essa ha consentito al presidente Obama di mostrarsi al pubblico statunitense come l’uomo che aveva presieduto alla caccia al leader di al-Qaeda. In termini pratici, tuttavia, la sua morte ha avuto scarso impatto sui gruppi jihadisti del genere di al-Qaeda la cui maggiore espansione ha avuto luogo successivamente.
Ignorato il ruolo dell’Arabia Saudita e del Pakistan
Le decisioni chiave che hanno consentito ad al-Qaeda di sopravvivere e poi di espandersi sono state prese nelle ore immediatamente successive all’11 settembre. Quasi ogni elemento significativo del progetto di far scontrare aerei contro le Torri Gemelle e altri edifici iconici statunitensi riconduceva all’Arabia Saudita. Bin Laden era membro dell’élite saudita e suo padre e stato un intimo del monarca saudita. Citando un rapporto della CIA del 2002, il rapporto ufficiale sull’11 settembre afferma che al-Qaeda si affidava per il proprio finanziamento a “una varietà di donatori e raccoglitori di fondi, principalmente nei paesi del Golfo e specialmente in Arabia Saudita”.
Gli indagatori del rapporto si sono visti ripetutamente limitare o negare l’accesso nella ricerca di informazioni in Arabia Saudita. Tuttavia il presidente George W. Bush evidentemente non ha mai preso in considerazione un’attribuzione di responsabilità ai sauditi per quello che era successo. Un’uscita dagli USA di sauditi di alto livello, tra cui parenti di bin Laden, era stata agevolata dal governo statunitense nei giorni dopo l’11 settembre. Cosa più notevole, 28 pagine del Rapporto della Commissione sull’11 settembre a proposito del rapporto tra gli attaccanti e l’Arabia Saudita sono state tagliate e mai pubblicate, nonostante una promessa del presidente Obama di farlo, per motivi di sicurezza nazionale.
Nel 2009, otto anni dopo l’11 settembre, un dispaccio del segretario di stato USA Hillary Clinton, rivelato da WikiLeaks, lamentava che donatori dell’Arabia Saudita costituivano la fonte più considerevole di finanziamenti a gruppi terroristi sunniti di tutto il mondo. Ma nonostante questa ammissione privata, gli USA e i paesi dell’Europa occidentale hanno continuato a restare indifferenti ai predicatori sauditi, i cui messaggi, diffusi a milioni via televisione satellitare, YouTube e Twitter, sollecitavano l’uccisione degli sciiti perché eretici. Questi appelli arrivavano mentre bombe di al-Qaeda massacravano gente nei quartieri sciiti dell’Iraq. Un sottotitolo di un altro dispaccio del Dipartimento di Stato dello stesso anno dice: “Arabia Saudita: Anti-sciismo come politica estera?” Oggi, cinque anni dopo, gruppi sostenuti dai sauditi hanno una storia di settarismo estremo contro mussulmani non sunniti.
Il Pakistan, o piuttosto i servizi segreti militari pachistani nella forma di Informazioni Inter-Servizi (ISI), è stato l’altro genitore di al-Qaeda, dei talebani e dei movimenti jihadisti in generale. Quando i talebani si stavano disintegrando sotto il peso dei bombardamenti statunitensi del 2001, le loro forze nel nord dell’Afghanistan erano intrappolate da forze anti-talebane. Prima della resa centinaia di membri dell’ISI, addestratori e consiglieri militari sono stati evacuati in fretta dall’aria. Nonostante prove chiarissime del patrocinio dell’ISI dei talebani e dei jihadisti in generale, Washington ha rifiutato di scontrarsi con il Pakistan e ha così aperto la via alla rinascita dei talebani dopo il 2003, che né gli Stati Uniti né la NATO sono stati capaci di rovesciare.
La “guerra al terrorismo” è fallita perché non ha attaccato il movimento jihadista nel suo complesso e, soprattutto, perché non è stata diretta contro Arabia Saudita e Pakistan, i due paesi che hanno promosso il jihadismo come credo e movimento. Gli Stati Uniti non lo hanno fatto perché questi paesi erano importanti alleati statunitensi che non volevano offendere. L’Arabia Saudita è un mercato enorme per armi statunitensi e i sauditi hanno coltivato, e all’occasione comprato, membri influenti della dirigenza politica statunitense. Il Pakistan è una potenza nucleare con una popolazione di 180 milioni e un esercito che ha legami stretti con il Pentagono.
La spettacolare rinascita di al-Qaeda e della sua discendenza ha avuto luogo nonostante l’enorme espansione dei servizi segreti statunitensi e britannici e dei loro bilanci dopo l’11 settembre. Da allora gli Stati Uniti, seguiti da vicino dai britannici, hanno combattuto guerre in Afghanistan e Iraq e adottato procedure normalmente associate a stati di polizia, quali l’incarcerazione senza processo, i sequestri [rendition], la tortura e lo spionaggio nazionale. I governi conducono una “guerra al terrorismo” affermando che i diritti dei singoli cittadini devono essere sacrificati per garantire la sicurezza di tutti.
Di fronte a queste controverse misure di sicurezza, i movimenti contro cui sono mirate non sono stati sconfitti ma sono, piuttosto, divenuti più forti. All’epoca dell’11 settembre al-Qaeda era un’organizzazione piccolo, generalmente inconcludente; arrivati al 2014 i gruppi del genere di al-Qaeda sono numerosi e potenti.
In altri termini, la “guerra al terrorismo”, la conduzione della quale ha plasmato il panorama politico di tanta parte del mondo dal 2001, è palesemente fallita. Fino alla caduta di Mosul nessuno vi ha prestato grande attenzione.
Patrick Cockburn è corrispondente dell’Independent per il Medio Oriente è ha lavorato in precedenza per il Financial Times. Ha scritto tre libri sulla storia recente dell’Iraq e una biografia, ‘The Broken Boy’ [Il ragazzo spezzato], e, con suo figlio, un libro sulla schizofrenia, ‘Henry’s Demons’ [I demoni di Henry]. Ha vinto il premio Martha Gellhorn nel 2005, il premio James Cameron nel 2006 e il Premio Orwell per il Giornalismo nel 2009. Il suo libro in corso di pubblicazione è ‘The Jihadis Return: ISIS and the New Sunni Uprising’ [Il ritorno dei jihadisti: l’ISIS e la nuova rivolta sunnita] è disponibile esclusivamente presso OR Books. Questo estratto (con una sezione introduttiva scritta per TomDispatch) è ricavato da tale libro.
Questo articolo è apparso inizialmente su TomDispatch.com, un blog del Nation Institute che offre un flusso costante di fonti, notizie e opinioni alternative a cura di Tom Engelhard, per lungo tempo direttore di edizione, cofondatore dell’American Empire Project, autore di ‘The End of Victory Culture’ [La fine della cultura della vittoria] e di un romanzo, ‘The Last Days of Publishing’[Gli ultimi giorni di pubblicazione]. Il suo libro più recente è ‘The American Way of War: How Bush’s Wars Became Obama’s’ [La via statunitense alla guerra: come le guerre di Bush sono diventate di Obama] (Haymarket Books).
Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org
Fonte: http://zcomm.org/znetarticle/why-washingtons-war-on-terror-failed/
Originale: TomDispatch.com
traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2014 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0
http://znetitaly.altervista.org/art/15679
[Questo saggio è estratto dal primo capitolo del nuovo libro di Patrick Cockburn, The Jihadis Return: ISIS and the New Sunni Uprising [Il ritorno dei jihadisti: l’ISIS e la nuova rivolta sunnita], con speciali ringraziamenti all’editore OR Books. La prima sezione è una nuova introduzione scritta per TomDispatch].
Ci sono elementi straordinari nell’attuale politica statunitense in Iraq e in Siria che suscitano un’attenzione sorprendentemente scarsa. In Iraq gli USA stanno conducendo attacchi aerei e inviando i propri consiglieri e addestratori a contribuire a respingere l’avanzata dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (meglio noto come ISIS) verso la capitale curda. Gli Stati Uniti farebbero presumibilmente lo stesso se l’ISIS circondasse o attaccasse Baghdad. Ma in Siria la politica di Washington è l’esatto opposto: là i principali avversari dell’ISIS sono il governo siriano e i curdi siriani nelle loro enclave settentrionali. Entrambi sono sotto l’attacco dell’ISIS, che si è impossessato di circa un terzo del territorio, compresa la maggior parte delle sue strutture di produzione di petrolio e gas.
Ma la politica statunitense, dell’occidente europeo, dei sauditi e del Golfo Arabo consiste nel rovesciare il presidente Bashar al-Assad, e capita che sia anche la politica dell’ISIS e di altri jihadisti in Siria. Se Assad cadrà, allora ne beneficerà l’ISIS, visto che sta o sconfiggendo o assorbendo il resto dell’opposizione armata siriana. A Washington e altrove si finge che esista un’opposizione siriana “moderata” aiutata da Stati Uniti, Qatar, Turchia e dai sauditi. E’, tuttavia, debole e sta diventando più debole ogni giorno che passa. Presto il nuovo califfato potrà estendersi dal confine iraniano al Mediterraneo e l’unica forza che potrà forse impedire che ciò accada è l’esercito siriano.
La realtà della politica statunitense consiste nell’appoggiare il governo dell’Iraq, ma non quello della Siria, contro l’ISIS. Ma uno dei motivi per cui quel gruppo è stato in grado di diventare così forte in Iraq è che può attingere alle sue risorse e ai suoi combattenti in Siria. Non tutto ciò che è andato storto in Iraq è stato colpa del primo ministro Nouri al-Maliki, com’è invece diventata l’opinione politica e mediatica prevalente in occidente. Politici iracheni mi sono andati dicendo negli ultimi due anni che l’appoggio straniero alla rivolta sunnita in Siria avrebbe inevitabilmente destabilizzato anche il loro paese. E’ quello che ora è successo.
Proseguendo con queste politiche contraddittorie nei due paesi gli USA hanno assicurato che l’ISIS rafforzasse i suoi combattenti in Iraq dalla Siria e viceversa. Sin qui Washington è riuscito a sottrarsi alla colpa dell’ascesa dell’ISIS attribuendola interamente al governo iracheno. In realtà ha creato una situazione in cui l’ISIS può sopravvivere e può prosperare bene.
L’uso dell’etichetta di al-Qaeda
Il forte aumento della forza e della portata delle organizzazioni jihadiste in Siria e in Iraq è in generale passato sotto silenzio sino a tempi recenti da parte dei politici e dei media dell’occidente. Uno dei principali motivi di ciò è che i governi occidentali e le loro forze di sicurezza definiscono in senso stretto la minaccia jihadista come le forze direttamente controllate dalla centrale di al-Qaeda o dal “cuore” di al-Qaeda. Ciò consente loro di presentare un quadro dei loro successi nella cosiddetta guerra al terrorismo molto più brillante di quanto autorizzi la situazione sul campo.
In realtà l’idea che i soli jihadisti da temere siano quelli che hanno la benedizione ufficiale di al-Qaeda è ingenua e illusoria. Ignora il fatto, ad esempio, che l’ISIS è stato criticato dal leader di al-Qaeda Ayman al-Zawahiri per la sua violenza e settarismo eccessivi. Dopo aver parlato, in precedenza quest’anno, con una varietà di ribelli jihadisti siriani non direttamente affiliati ad al-Qaeda nella Turchia sud-orientale, una fonte mi ha detto che “senza eccezione hanno tutti espresso entusiasmo per gli attacchi dell’11 settembre e hanno sperato che lo stesso accada in Europa come negli USA”.
I gruppi jihadisti ideologicamente vicini ad al-Qaeda sono stati rietichettati da moderati se le loro azioni sono ritenute favorevoli agli scopi politici statunitensi. In Siria gli statunitensi hanno appoggiato un piano dell’Arabia Saudita di costruire un “Fronte meridionale” con sede in Giordania che sarebbe stato ostile al governo di Damasco di Assad e contemporaneamente ostile ai ribelli di tipo al-Qaeda nel nord e nell’est. La potente, ma supposta moderata, Brigata Yarmouk, apparentemente destinataria programmata di missili antiaerei dall’Arabia Saudita, avrebbe dovuto essere l’elemento guida di questa nuova formazione. Ma numerosi video mostrano che la Brigata Yarmouk ha combattuto frequentemente in collaborazione con lo JAN, un gruppo ufficialmente affiliato ad al-Qaeda. Poiché era probabile che, nel mezzo dei combattimenti, questi due gruppi condividessero le loro munizioni, Washington ha in effetti consentito che armamenti avanzati fosse passati al suo nemico jihadista. Dirigenti iracheni confermano di aver catturato armi sofisticate a combattenti dell’ISIS in Iraq, originariamente fornite da potenze esterne a forze considerate anti al-Qaeda in Siria.
Il nome al-Qaeda è stato sempre attribuito in modo flessibile nell’identificare un nemico. Nel 2003 e 2004 in Iraq, mentre montava l’opposizione irachena armata all’occupazione a guida statunitense e britannica, dirigenti statunitensi hanno attribuito la maggior parte degli attacchi ad al-Qaeda, anche se molti erano attuati da gruppi nazionalisti e baatisti. Una propaganda simile ha contribuito a convincere quasi il 60% degli elettori prima dell’invasione irachena che c’era un collegamento tra Saddam Hussein e i responsabili dell’11 settembre, nonostante l’assenza di qualsiasi prova al riguardo. Nello stesso Iraq, in realtà nell’intero mondo mussulmano, queste accuse hanno avvantaggiato al-Qaeda esagerando il suo ruolo nella resistenza all’occupazione statunitense e britannica.
Le tattiche propagandistiche esattamente opposte sono state impiegate dai governi occidentali nel 2011 in Libia, quando è stata minimizzata ogni somiglianza tra al-Qaeda e i ribelli appoggiati dalla NATO nel rovesciamento del leader libico Muammar Gheddafi. Solo i jihadisti che avevano un contatto operativo diretto con il “cuore” di al-Qaeda di Osama bin Laden sono stati considerati pericolosi. La falsità della pretesa che i jihadisti anti Gheddafi in Libia fossero meno minacciosi di quelli in contatto diretto con al-Qaeda è stata rivelata energicamente, anche se tragicamente, quando l’ambasciatore statunitense Chris Stevens è stato ucciso da combattenti jihadisti a Bengasi nel settembre 2012. Erano gli stessi combattenti lodati dai governi e dai media occidentali per il loro ruolo nella rivolta contro Gheddafi.
Al-Qaeda immaginata come la mafia
Al-Qaeda, più che un’organizzazione, è un’idea e lo è da lungo tempo. Per un quinquennio dopo il 1996 ha avuto in effetti quadri, risorse e campi in Afghanistan, ma sono stati eliminati dopo il rovesciamento dei talebani nel 2001. Successivamente il nome di al-Qaeda è diventato principalmente una parola d’ordine, un insieme di credenze islamiche, incentrato sulla creazione di uno stato islamico, sull’imposizione della sharia, un ritorno a costumi islamici, la sottomissione delle donne e lo scatenamento di una guerra santa contro altri mussulmani, specialmente gli sciiti, che sono considerati eretici meritevoli di morte. Al centro di questa dottrina bellicista c’è un’enfasi sul sacrificio di sé e il martirio come simbolo di fede e devozione religiosa. Ciò si è tradotto nell’utilizzo di credenti non addestrati ma fanatici come attentatori suicidi, con effetti devastanti.
E’ sempre stato nell’interesse degli USA e di altri governi che al-Qaeda fosse considerato come una struttura di comando e controllo simile a un mini-Pentagono e alla mafia negli Stati Uniti. Questa è un’immagine confortante per il pubblico perché gruppi organizzati, per quanto demoniaci, possono essere scovati ed eliminati mediante incarcerazione o la morte. Più allarmante è la realtà di un movimento i cui aderenti si auto-arruolano e possono sorgere dovunque.
La raccolta di militanti di Osama bin-Laden, che egli non ha chiamato al-Qaeda se non dopo l’11 settembre, dodici anni fa era soltanto uno di molti gruppi jihadisti. Ma oggi le sue idee e i suoi metodi sono predominanti nei gruppi jihadisti per il prestigio e la pubblicità ottenuti con la distruzione delle Torri Gemelle, la guerra in Iraq e la sua demonizzazione da parte di Washington come fonte di ogni male anti-statunitense. Oggi c’è una riduzione delle differenze nelle credenze dei jihadisti, indipendentemente dal fatto che siano o no collegati alla centrale di al-Qaeda.
Non sorprendentemente i governi preferiscono l’immagine fantasiosa di al-Qaeda perché consente loro di proclamare vittorie quando riescono a uccidere i suoi membri e alleati più noti. Spesso agli eliminati sono attribuiti gradi quasi militari, come “capo delle operazioni”, per amplificare il significato della loro scomparsa. Il culmine di questo aspetto pesantemente pubblicizzato ma largamente irrilevante della “guerra al terrorismo” è stato l’uccisione di bin Laden ad Abbottabad, in Pakistan, nel 2011. Essa ha consentito al presidente Obama di mostrarsi al pubblico statunitense come l’uomo che aveva presieduto alla caccia al leader di al-Qaeda. In termini pratici, tuttavia, la sua morte ha avuto scarso impatto sui gruppi jihadisti del genere di al-Qaeda la cui maggiore espansione ha avuto luogo successivamente.
Ignorato il ruolo dell’Arabia Saudita e del Pakistan
Le decisioni chiave che hanno consentito ad al-Qaeda di sopravvivere e poi di espandersi sono state prese nelle ore immediatamente successive all’11 settembre. Quasi ogni elemento significativo del progetto di far scontrare aerei contro le Torri Gemelle e altri edifici iconici statunitensi riconduceva all’Arabia Saudita. Bin Laden era membro dell’élite saudita e suo padre e stato un intimo del monarca saudita. Citando un rapporto della CIA del 2002, il rapporto ufficiale sull’11 settembre afferma che al-Qaeda si affidava per il proprio finanziamento a “una varietà di donatori e raccoglitori di fondi, principalmente nei paesi del Golfo e specialmente in Arabia Saudita”.
Gli indagatori del rapporto si sono visti ripetutamente limitare o negare l’accesso nella ricerca di informazioni in Arabia Saudita. Tuttavia il presidente George W. Bush evidentemente non ha mai preso in considerazione un’attribuzione di responsabilità ai sauditi per quello che era successo. Un’uscita dagli USA di sauditi di alto livello, tra cui parenti di bin Laden, era stata agevolata dal governo statunitense nei giorni dopo l’11 settembre. Cosa più notevole, 28 pagine del Rapporto della Commissione sull’11 settembre a proposito del rapporto tra gli attaccanti e l’Arabia Saudita sono state tagliate e mai pubblicate, nonostante una promessa del presidente Obama di farlo, per motivi di sicurezza nazionale.
Nel 2009, otto anni dopo l’11 settembre, un dispaccio del segretario di stato USA Hillary Clinton, rivelato da WikiLeaks, lamentava che donatori dell’Arabia Saudita costituivano la fonte più considerevole di finanziamenti a gruppi terroristi sunniti di tutto il mondo. Ma nonostante questa ammissione privata, gli USA e i paesi dell’Europa occidentale hanno continuato a restare indifferenti ai predicatori sauditi, i cui messaggi, diffusi a milioni via televisione satellitare, YouTube e Twitter, sollecitavano l’uccisione degli sciiti perché eretici. Questi appelli arrivavano mentre bombe di al-Qaeda massacravano gente nei quartieri sciiti dell’Iraq. Un sottotitolo di un altro dispaccio del Dipartimento di Stato dello stesso anno dice: “Arabia Saudita: Anti-sciismo come politica estera?” Oggi, cinque anni dopo, gruppi sostenuti dai sauditi hanno una storia di settarismo estremo contro mussulmani non sunniti.
Il Pakistan, o piuttosto i servizi segreti militari pachistani nella forma di Informazioni Inter-Servizi (ISI), è stato l’altro genitore di al-Qaeda, dei talebani e dei movimenti jihadisti in generale. Quando i talebani si stavano disintegrando sotto il peso dei bombardamenti statunitensi del 2001, le loro forze nel nord dell’Afghanistan erano intrappolate da forze anti-talebane. Prima della resa centinaia di membri dell’ISI, addestratori e consiglieri militari sono stati evacuati in fretta dall’aria. Nonostante prove chiarissime del patrocinio dell’ISI dei talebani e dei jihadisti in generale, Washington ha rifiutato di scontrarsi con il Pakistan e ha così aperto la via alla rinascita dei talebani dopo il 2003, che né gli Stati Uniti né la NATO sono stati capaci di rovesciare.
La “guerra al terrorismo” è fallita perché non ha attaccato il movimento jihadista nel suo complesso e, soprattutto, perché non è stata diretta contro Arabia Saudita e Pakistan, i due paesi che hanno promosso il jihadismo come credo e movimento. Gli Stati Uniti non lo hanno fatto perché questi paesi erano importanti alleati statunitensi che non volevano offendere. L’Arabia Saudita è un mercato enorme per armi statunitensi e i sauditi hanno coltivato, e all’occasione comprato, membri influenti della dirigenza politica statunitense. Il Pakistan è una potenza nucleare con una popolazione di 180 milioni e un esercito che ha legami stretti con il Pentagono.
La spettacolare rinascita di al-Qaeda e della sua discendenza ha avuto luogo nonostante l’enorme espansione dei servizi segreti statunitensi e britannici e dei loro bilanci dopo l’11 settembre. Da allora gli Stati Uniti, seguiti da vicino dai britannici, hanno combattuto guerre in Afghanistan e Iraq e adottato procedure normalmente associate a stati di polizia, quali l’incarcerazione senza processo, i sequestri [rendition], la tortura e lo spionaggio nazionale. I governi conducono una “guerra al terrorismo” affermando che i diritti dei singoli cittadini devono essere sacrificati per garantire la sicurezza di tutti.
Di fronte a queste controverse misure di sicurezza, i movimenti contro cui sono mirate non sono stati sconfitti ma sono, piuttosto, divenuti più forti. All’epoca dell’11 settembre al-Qaeda era un’organizzazione piccolo, generalmente inconcludente; arrivati al 2014 i gruppi del genere di al-Qaeda sono numerosi e potenti.
In altri termini, la “guerra al terrorismo”, la conduzione della quale ha plasmato il panorama politico di tanta parte del mondo dal 2001, è palesemente fallita. Fino alla caduta di Mosul nessuno vi ha prestato grande attenzione.
Patrick Cockburn è corrispondente dell’Independent per il Medio Oriente è ha lavorato in precedenza per il Financial Times. Ha scritto tre libri sulla storia recente dell’Iraq e una biografia, ‘The Broken Boy’ [Il ragazzo spezzato], e, con suo figlio, un libro sulla schizofrenia, ‘Henry’s Demons’ [I demoni di Henry]. Ha vinto il premio Martha Gellhorn nel 2005, il premio James Cameron nel 2006 e il Premio Orwell per il Giornalismo nel 2009. Il suo libro in corso di pubblicazione è ‘The Jihadis Return: ISIS and the New Sunni Uprising’ [Il ritorno dei jihadisti: l’ISIS e la nuova rivolta sunnita] è disponibile esclusivamente presso OR Books. Questo estratto (con una sezione introduttiva scritta per TomDispatch) è ricavato da tale libro.
Questo articolo è apparso inizialmente su TomDispatch.com, un blog del Nation Institute che offre un flusso costante di fonti, notizie e opinioni alternative a cura di Tom Engelhard, per lungo tempo direttore di edizione, cofondatore dell’American Empire Project, autore di ‘The End of Victory Culture’ [La fine della cultura della vittoria] e di un romanzo, ‘The Last Days of Publishing’[Gli ultimi giorni di pubblicazione]. Il suo libro più recente è ‘The American Way of War: How Bush’s Wars Became Obama’s’ [La via statunitense alla guerra: come le guerre di Bush sono diventate di Obama] (Haymarket Books).
Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org
Fonte: http://zcomm.org/znetarticle/why-washingtons-war-on-terror-failed/
Originale: TomDispatch.com
traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2014 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0
http://znetitaly.altervista.org/art/15679
Nessun commento:
Posta un commento