L’apertura di un nuovo fronte, quello yemenita, nel vicino Oriente, mette a nudo tutto il viluppo di contraddizioni create da una politica dissennata. Appare con evidenza l’imbarazzo di Obama e della sua Amministrazione davanti a un conflitto che vede come veri antagonisti Arabia Saudita e Iran, rispettivamente alla testa dello schieramento sunnita e di quello sciita.
Ogni Presidente ambisce a lasciare una traccia nella storia. Obama sta vantando nella sua politica interna l’uscita dalla crisi drammatica apertasi nel 2008 e l’inizio della ripresa economica. Il fatto che sia una ripresa fragile e drogata non gli impedisce di attribuirsene il merito e di spacciarla come una svolta profonda e duratura. Gli manca un grande successo nella politica estera, quella che più si imprime nella memoria storica. Un successo che giustifichi il premio Nobel attribuitogli sulla fiducia.
Il suo obiettivo era legare il nome della sua presidenza a un accordo di pace fra Israele e i palestinesi. L’intransigenza di Netanyahu ha frustrato questo disegno, il che fa comprendere il motivo dei rapporti personali tesi fra i due. Allora Obama ha ripiegato su quella che sarebbe stata un’altra svolta storica, la riconciliazione fra USA e Iran. La guerra nello Yemen rende più difficile anche il conseguimento di questo obiettivo.
Obama non vorrebbe pregiudicare il possibile accordo con l’Iran sul nucleare, accordo strumentale che dovrebbe aprire la strada a un’intesa più ampia rivolta ad allentare i legami che l’Iran ha con Russia e Siria, ma nel contempo non può rompere con l’Arabia Saudita, alleato preziosissimo e insostituibile in quello scacchiere decisivo per gli equilibri internazionali e per le sorti del mondo. Lo schieramento sunnita anti sciita e quindi anti iraniano comprende tutte le pedine che gli USA utilizzano da decenni: Egitto, che deve schierarsi con l’Arabia Saudita perché sono i suoi petrodollari che lo tengono in piedi, Giordania, Qatar, Emirati, la stessa Turchia, più defilata ma comunque solidale con la causa sunnita e membro della NATO.
D’altra parte un impegno militare diretto americano accanto ai sunniti comprometterebbe ogni dialogo con l’Iran. I pasticci combinati dalle ripetute aggressioni imperialiste si manifestano nel posizionamento del governo iracheno. Essendo fortemente connotato dalla preponderanza sciita, che non può rinunciare agli ottimi rapporti con l’Iran, necessari anche per impedire che il Califfato giunga fino a Baghdad, quel governo, che pure fu insediato dagli americani, non può schierarsi col fronte sunnita.
Un’altra conseguenza probabile dello scontro fra sauditi e iraniani in Yemen è l’allentamento della morsa sul Califfato. I guerrieri dello Stato Islamico sono i più feroci nemici dello sciitismo, quindi possono fare comodo allo schieramento sunnita. Inoltre l’impegno delle forze aeree arabe sul fronte yemenita sottrae un supporto ai bombardamenti, del resto tutt’altro che intensi, che USA e alleati occidentali effettuano contro le basi dello Stato Islamico.
Non è inoltre da trascurare l’ipotesi che una guerra prolungata nell’area del Golfo faccia di nuovo schizzare in alto il prezzo del petrolio, vanificando la manovra che americani e sauditi hanno presumibilmente concordato per farne crollare il prezzo e mettere in ginocchio la Russia.
Infine si allontana l’obiettivo di allentare i legami fra Iran e Russia. Anzi, l’immediata presa di posizione a favore dell’Iran da parte del governo russo, consolida un’alleanza di fatto. Fra Russia, Iran, Siria ed Hezbollah libanesi si rinsalda una comunità di intenti e di solidarietà operativa, mentre l’altro schieramento è attraversato da continui sbandamenti.
Si evidenzia così come la strategia di seminare il caos attraverso una serie di devastanti aggressioni abbia imprigionato la diplomazia americana in una ragnatela in cui ogni movimento in qualsivoglia direzione non fa altro che invischiarla più saldamente nella rete.
C’è un solo attore che continua a trarre giovamento dalla strategia del caos, un attore che ha operato con intelligenza strategica e coerenza, assistendo compiaciuto alla disintegrazione degli Stati confinanti e non mostrando la minima preoccupazione per l’espansione dello Stato Islamico e dei suoi tagliagole: Israele. Tuttavia il caos è per definizione ingestibile. Dal caos può scaturire qualunque cosa, anche la più imprevedibile. Di questo dovrebbero tener conto anche a Gerusalemme, dove tramano cervelli più informati sulle dinamiche di quell’area e più lungimiranti di quelli che gravitano attorno allo sprovveduto Obama.
Luciano Fuschini
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