SILICON BIDEN - 259,3 MILIONI DI DOLLARI AI DEMOCRATICI: FACEBOOK, AMAZON E LE ALTRE MULTINAZIONALI DELL'HI TECH SI SONO SPESE COME NON MAI PER SOSTENERE L'ASINELLO. A PESARE C'È NON SOLO L'AFFINITÀ IDEOLOGICA, MA PURE L'OSTILITÀ ALLA POLITICA DEI DAZI FATTA DA TRUMP CONTRO LA CINA
Stefano Graziosi per “la Verità”
Che tra i numerosi potentati economici che quest' anno hanno ampiamente foraggiato il Partito democratico americano ci fosse la Silicon Valley, non è una novità. Guardando tuttavia da vicino i finanziamenti effettuati, si nota che la potenza di fuoco dei colossi tecnologici sia stata veramente impressionante. Secondo quanto riportato da Open secrets (sito dell' istituto di ricerca apartitico di Washington, Center for responsive politics), il comparto «Communications/Electronics» ha donato, nel ciclo elettorale del 2020, 259,3 milioni di dollari ai democratici, a fronte dei 58,3 milioni elargiti ai repubblicani.
Certo, è pur vero che storicamente le grandi aziende tecnologiche abbiano sempre mostrato di preferire l' asinello all' elefantino. Ma quest' anno il loro impegno è cresciuto sensibilmente: si pensi che nel 2016 diedero «appena» 162 milioni di dollari ai dem, mentre nel 2012 il contributo fu di 106 milioni. Entrando poi nello specifico dei singoli candidati presidenziali di quest' anno, Open secrets riporta che il settore abbia principalmente sostenuto Joe Biden, con oltre 48.700.000 dollari: una cifra considerevole, soprattutto se confrontata con i circa 8 milioni incassati dal presidente in carica. Numeri comunque ben differenti dal 2016, quando l' allora candidata Hillary Clinton ottenne 31 milioni di dollari, a fronte dei due ricevuti dallo stesso Donald Trump.
Anche a livello di bacini legati a singole aziende, la maggior parte dei contributi è confluita nell' area dem. Alphabet ha versato circa 11.373.000 dollari, di cui il 92.9% è andato all' asinello. Microsoft ha invece messo in campo circa 8.847.000 dollari, di cui l' 88,5% è stato convogliato nella galassia dem.
Anche l' 89,7% dei circa 3.600.000 dollari elargiti da Facebook è stato indirizzato verso il Partito democratico. Discorso analogo vale per Amazon che ha donato l' 84% dei suoi 6.187.000 dollari complessivi all' asinello.
Anche dei circa 3.864.000 dollari totali sborsati da Apple, il 90,1% sono andati ai dem. La stessa Oracle, considerata maggiormente vicina a Trump, ha indirizzato ai democratici il 74,4% delle proprie donazioni complessive (circa 2.400.000 dollari).
Open secrets riporta inoltre come tra i finanziatori del super Pac progressista, Priorities Usa Action, figurino svariati dipendenti di Apple, Google e Amazon.
In tutto questo, non va neppure trascurato che - subito dopo l' assegnazione della Pennsylvania a Biden da parte della Cnn - siano fioccate le congratulazioni al ticket dem da parte di alcuni importanti esponenti dei colossi tecnologici: dal Ceo di Amazon Jeff Bezos al fondatore di Microsoft Bill Gates, passando per Priscilla Chan (moglie di Mark Zuckerbeg) e Sheryl Sandberg (direttrice operativa di Facebook). D' altronde, lo scorso agosto il sito progressista Vox sottolineò le strette connessioni di Kamala Harris con la Silicon Valley, oltre al fatto che, ai tempi della sua campagna per il Senato, la vicepresidentessa in pectore avesse ricevuto finanziamenti ed endorsement proprio da alcuni alti funzionari dei colossi tecnologici (a partire dalla stessa Sandberg).
Insomma, lo sforzo poderoso che la Silicon Valley ha attuato per sostenere l' universo democratico è abbastanza evidente. Un elemento che offre lo spunto per due considerazioni di natura politica. Innanzitutto ciò rende maggiormente evidente il fatto che i principali social network abbiano portato avanti una battaglia strumentale (e non una difesa della verità), censurando gli articoli del New York Post sulla famiglia Biden. D' altronde, se la motivazione per bloccare la condivisione di quelle inchieste era che non fossero verificate, allora non si spiega per quale ragione Facebook e Twitter non abbiano censurato - nel gennaio del 2017 - l' altrettanto infondato dossier di Christopher Steele, pubblicato da BuzzFeed: documento che, guarda caso, accusava Trump di essere sotto ricatto dei russi. In secondo luogo, è bene fare attenzione alla politica commerciale.
La Silicon Valley ha sempre guardato con fastidio alla guerra tariffaria, avviata dal presidente in carica nei confronti di Pechino: per le aziende dell' area quelle tensioni hanno infatti significato meno investimenti cinesi e maggiori problemi per delocalizzare la produzione nella Repubblica popolare. Non dimentichiamo che proprio questo fattore abbia costituito una delle principali cause di attrito tra l' attuale inquilino della Casa Bianca e Apple negli ultimi anni: era il gennaio del 2019, quando Trump dichiarò: «Apple produce i suoi prodotti in Cina. Ho detto a Tim Cook, che è un mio amico: "Fai i tuoi prodotti negli Stati Uniti" [] La Cina è il principale beneficiario di Apple, non noi».
Non sarà allora forse un caso che, durante il dibattito tra i candidati alla vicepresidenza dello scorso ottobre, Kamala Harris abbia duramente criticato proprio la guerra commerciale, portata avanti dal presidente in carica verso Pechino: tutto questo con buona pace dei colletti blu della Rust Belt che, soprattutto nell' ultimo decennio, della delocalizzazione della produzione e della concorrenza sleale cinese sono stati le prime vittime. E pensare che, sabato scorso, Biden ha dichiarato che la sua è stata una «vittoria del popolo»! Per carità, può anche essere. Resta tuttavia da capire che cosa intenda per «popolo».
Perché come riuscirà a far convergere gli interessi dei colossi tecnologici con quelli della working class, non è esattamente chiaro.
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