di Sebastiano Fusco
Il destino talvolta gioca le sue partite su una scacchiera insolita e muove imprevedibili pedine. Con l’avvento dell’illuminismo, con l’imporsi della cosiddetta “dea ragione” germinata nel sangue della barbara e immonda rivoluzione francese, con il prevalere del rozzo positivismo ottocentesco spuntato come una muffa nei maleodoranti gabinetti di chimica degli atenei tedeschi, lo splendore del pensiero magico s’era perso nel mondo, la voce stessa del divino risuonava soltanto fra i banchi di legno unto di chiese decrepite frequentate da vecchie beghine. C’era stata, sì, qualche voce isolata che aveva tentato di far rivivere la sapienza antica. Louis-Claude de Saint-Martin, il “filosofo sconosciuto”, Eliphas Levi, il figlio del ciabattino, e pochi altri: ma tutti inascoltati, tutti alla fine confusi nel loro dire, tutti incapaci di realizzare una sintesi coordinata della massa immensa del sapere occulto che premeva alle loro spalle.
- Quando il destino muove i pezzi
Poi, a metà del secondo Ottocento, il destino muove i suoi pezzi, ed ecco la svolta. Nello stesso anno, il 1875, muore Eliphas Levi, nasce Aleister Crowley e il fantasmagorico circo equestre della Società Teosofica comincia il suo viaggio. Non so se qualcuno creda ancora alle coincidenze (io non ci credo): fatto sta che quegli anni, che in seguito certi storici del pensiero bollarono come caratterizzati da una “fuga dalla ragione”, videro il risorgere di una più vasta sensibilità verso quello che poi venne chiamato “il paranormale”. Fantasmi bussavano alle porte dei vivi in salotti poco illuminati, strane apparizioni si mostravano nei cieli, bislacchi poteri venivano attribuiti a personaggi controversi, si ripresentavano dimenticate dottrine d’Oriente e d’Occidente, da ogni dove spuntavano mistagoghi e sedicenti profeti. L’angelo del bizzarro aveva nuovamente aperto le sue ali, ma nessuno ancora sapeva interpretare che cosa si nascondesse alla loro ombra.
Toccò ad una singolare consorteria di eccentrici vittoriani, con barbe fiorite e inamidate marsine, raccogliere in un sol fascio tutte le risvegliate tradizioni che giungevano loro dai luoghi e dai tempi più diversi, per fonderle in una corrente di pensiero unita e coerente. L’eterogeneità delle fonti dottrinarie cui si rifecero quegli straordinari personaggi è pari solo alle reciproche differenze. Difficile immaginare un gruppo più scombinato: impettiti intellettuali come il dottor Robert Woodman e austeri magistrati come Wynn Westcott partecipano a solenni rituali accanto ad attricette ninfomani come Florence Farr o vergini dalla timidezza paralizzante come Annie Horniman. Moira Bergson, sorella di uno dei massimi esponenti del pensiero speculativo, Henri, il filosofo de La Rire, diviene veggente e sposa quello che agli occhi di tutti è un pazzo fanatico, il sedicente sacerdote egizio Samuel Lyddell, che poi si fece chiamare MacGregor Mathers. Un asceta buddhista come Alan Bennett diviene il compagno inseparabile di un personaggio dèdito sin dalla prima giovinezza ad ogni genere di deboscia, come Aleister Crowley. Il più grande poeta di lingua inglese del Novecento, William Butler Yeats, nutrito di fiabe irlandesi e cattolicesimo, conversa con un pastore anglicano integralista come il dottor Ayton, scambiando informazioni sull’elisir di vita (secondo una leggenda, Ayton lo distillò, ma quando infine vi riuscì era ormai vecchio decrepito ed ebbe paura di berlo). Nei templi dell’Ordine, allestiti con ricchezza di addobbi e modellati sulla cripta di Christian Rosenkreutz, assistevano ai riti, paludati nei loro paramenti multicolori, scienziati come l’astronomo reale di Scozia, pittori alla moda, civil servantsreduci da remote plaghe dell’Impero, impiegati d’ordine e di concetto, giornalisti, commercianti milionari (in sterline) e disgraziati poveri in canna. Davvero un incredibile spaccato, tagliato in tutti i sensi possibili, della società vittoriana di fine Ottocento. Folta, fra tutta questa eterogenea umanità, la rappresentanza degli scrittori, in particolare dell’occulto e del soprannaturale. Per questo c’è una ragione, che chiariremo verso la fine di questo breve excursusnell’altrove assoluto. A questo gruppo così singolare che abbiamo descritto fu dato – da un destino le cui vie non oseremo giudicare – di correre la più esaltante delle avventure intellettuali: soffiare sulle braci ancora vive della sapienza magica, sepolte sotto la cenere dei secoli, per farne divampare ancora una volta il fuoco di una dottrina dimenticata.
In inglese Golden Dawn significa letteralmente “alba dorata”: ma, in senso un po’ più profondo, ha il significato che gli alchimisti assegnavano al nome Aurora. Abituati, per tradizione kabbalistica, a ragionare sulle parole, i seguaci di Ermete vedevano in tale nome la radice lessicale aur- da Aurum, l’oro, e la desinenza verbale –or da oriri, sorgere. Abituati inoltre a ragionamenti metaculturali basati sulla convinzione che tutti gli idiomi dell’umanità nascano da un originario Ursprache parlato nella Età d’Oro del mito, prima della confusione babelica, in Aurora vedevano inoltre un richiamo al dio egizio Horus, simbolo della rinascita e del rinnovamento tanto individuale quanto collettivo, ovvero il risorgere del mondo intero in una nuova èra di là da venire. Per gli alchimisti l’Alba d’Oro è il momento in cui il Sole nasce a fugare le tenebre di Apophis, la Notte Nera dell’Anima, e ad annunciare il sorgere glorioso della nuova personalità dell’Adepto, rinata dopo la disperazione della morte cui era stata assoggettata, come in un rito sacrificale, la personalità vecchia. Quest’uomo nuovo è dotato di poteri di percezione ed elaborazione spirituale ben più vasti di quelli dell’uomo comune. È in contatto diretto, senza intermediazioni di alcun tipo, con le immense Forze Magiche che permeano e modellano l’Universo, ed è perciò più vicino a Dio, in quanto totalmente partecipe della Sua volontà, così come essa si esplica nel Tetramundio. Un uomo del genere viene detto Iniziato perché ha ormai fatto il suo ingresso (intus-ire) nelle dimensioni superiori dell’Essere ed è partecipe del Divino.
- Le quattro vie dell’iniziazione
Il termine “Iniziazione” è da sempre soggetto ad interpretazioni, ahimé, poco felici. Complice soprattutto il gusto scenografico della massoneria britannica, viene associato a fastose cerimonie, solenni rivelazioni, tremende prove e spaventosi contatti con entità ultraterrene. Tutto questo può anche esserci, ma è pura coreografia: iniziazione significa, semplicemente, fornire a qualcuno i mezzi per iniziare con cognizione di causa un certo cammino.
Quando si parte per un viaggio in un paese che non si conosce, occorre provvedersi di una serie di cose. Innanzitutto, aver chiara una mèta, ad evitare di girare in tondo e perdersi senza arrivare a nulla; poi si ha bisogno di un baedeker, una guida comprendente almeno un dizionarietto essenziale che ci aiuti a comprendere quel che si vede e ad interloquire con chi si incontra; infine, nell’ipotesi che il territorio possa a tratti rivelarsi ostile, occorre premunirsi di un mezzo di difesa. L’iniziazione non è nulla più di questo: la trasmissione delle informazioni necessarie per “iniziare” il viaggio.
A un viaggio del genere si apparecchia, per esempio, il protagonista delle Nozze chimiche di Christian Rosenkreutz, romanzo “iniziatico” quanto mai ve ne è stato uno. La meta gli è stata comunicata: il Palazzo del Re, in cui si celebreranno i mistici sponsali cui è invitato. La guida ce l’ha: le istruzioni ricevute per il cammino e, soprattutto, il Magnete, ovvero la bussola che indica la direzione. Gli sono state fornite anche le difese: la Croce che gli orna il petto e il Sigillo d’oro che reca un simbolo protettivo. Per giungere al Palazzo, attraversando un paese che non conosce, gli si offrono quattro vie. Due sono lunghe, ma piane e scorrevoli; di queste, la prima richiede un’attenzione costante al Magnete, per non sviarsi; la seconda offre tante di quelle distrazioni che i più finiscono per smarrirsi. Delle altre due, brevi, la prima è irta di ostacoli sormontabili soltanto con grande difficoltà, mentre la seconda è adatta unicamente ad esseri indistruttibili. Per iniziare il suo cammino, il protagonista deve scegliere la via che gli sembra più adatta.
Bene, queste sono esattamente le opportunità che offrono le scuole iniziatiche tradizionali. Si dividono in due categorie: da un lato quelle che seguono le vie più semplici ma lunghe, dall’altro quelle che scelgono itinerari brevi ma rischiosi. Le prime due sono dette vie del mistico, si dipanano sotto la luce argentea della Luna e sono rinfrescate dalla pioggia e dall’acqua delle fonti. Le seconde sono proprie del guerriero o dell’eroe: i raggi dorati del Sole le rendono ardenti, i nemici sono ad ogni passo e il fuoco è costante compagno.
La prima via del mistico si percorre da soli; è piana e scorrevole, ma occorre non distogliere mai gli occhi dall’ago magnetico: basta un nulla per perdersi in una foresta dalla quale non c’è via d’uscita; la seconda gode di compagni di viaggio che seguono la stessa strada e attraversa splendidi panorami, ma c’è il rischio che la compagnia diventi tanto piacevole e i luoghi visitati tanto gradevoli da far smarrire il desiderio stesso di giungere alla meta. L’eroe e il guerriero scelgono invece le vie brevi e difficili e le percorrono senza compagni né scudieri. Il primo si affida alla propria forza interiore per superare gli ostacoli e gli avversari, ed è esattamente questo il cimento che lo qualifica come eroe. Il secondo si apre la strada grazie alle armi di cui s’è munito: ma è un rischio tremendo, perché quegli stessi strumenti possono rivolgersi contro di lui.
Fuor di metafora, le vie lunari sono quelle in cui l’apertura della propria coscienza viene ottenuta con una lenta maturazione interiore, che si opera mercè un regime di vita opportuno e con un’adatta coltivazione dello spirito attraverso operazioni mentali, ovvero le varie forme di concentrazione, meditazione e contemplazione di simboli specifici. Chi trasmette le istruzioni iniziatiche fissa le regole da seguire, che in genere prevedono un’applicazione costante per molti anni, perché la via è lunga. Queste norme cambiano a seconda delle atmosfere culturali e dei retaggi sapienziali, ma hanno tutte lo stesso scopo: conferire all’adepto, se vogliamo chiamarlo così, la possibilità di apprendere sempre più cose nel corso del suo iter, sino a pervenire alla conoscenza dei mondi ulteriori, all’interazione con le entità che li popolano e all’esplicazione della propria Volontà, opportunamente coltivata su tutte le molteplici dimensioni dell’essere. Si può viaggiare da soli: ma occorre stare attenti e seguire sempre alla lettera le istruzioni ricevute (l’ago della bussola), perché ogni deviazione potrebbe far smarrire il delicato equilibrio psicofisico che l’adepto va progressivamente consolidando. Se si osserva questo, la via non presenta ostacoli, ma ha uno svantaggio: inevitabilmente, si percorreranno le orme di altri che ci hanno preceduti, non si potranno fare mai scoperte originali ma si potrà soltanto avere la prova che certe cose che abbiamo letto, o che ci sono state comunicate, sono vere e conformi alle testimonianze di chi ha seguito le stesse tappe prima di noi. Molte scuole iniziatiche fanno esattamente questo – e sono consolidate proprio perché quanto affermano è verificabile.
Altre scuole, specie quelle derivate da sviluppi esoterici di fedi religiose, prevedono invece che l’adepto non sia solo durante il cammino, ma che il viaggio sia un’avventura collettiva che coinvolge tutta una comunità. Questa via prevede in genere complessi ritualismi, diversi obblighi di tipo cerimoniale e varie liturgie. Apre splendide visioni che tuttavia possono distrarre, sino a divenire il fine del viaggio, anziché un’esperienza di passaggio. È la via favorita da quei mistagoghi che, offrendo il miraggio della trascendenza, si ergono a santoni per assumere il controllo delle coscienze. Per questo, le Nozze Chimiche ammoniscono che soltanto uno su mille fra coloro che s’inoltrano su tale via ha la possibilità di giungere alla meta. Gli altri finiscono per giocare con se stessi e conseguire un falso appagamento nei riti e nella socialità, quando non si trovano invischiati in pericolose azioni trasgressive, come quelle ispirate da tanti personaggi carismatici che ogni tanto s’affacciano alla cronaca.
Le due vie solari, dal canto loro, sono brevi perché caratterizzate dalla violenza. Non agiscono come l’acqua (il menstruum o fluido lunare) che discioglie lentamente le resistenze interiori poste ad impedire alla consapevolezza umana di prendere contatto con l’altra realtà, ma sono come un fuoco che divampa e distrugge o una forza subitanea il cui urto manda in pezzi il guscio dell’anima, come la sfera d’acciaio che sbriciola il palazzo destinato ad essere abbattuto. In questo caso, le istruzioni iniziatiche sono volte ad accrescere a poco a poco la solidità dell’Io, in modo che questo ultimo sia in grado di resistere all’impeto della forza applicata senza finire anch’esso in pezzi. Il prosieguo del cammino è sempre così: vi sono ostacoli da superare (la nostra coscienza è protetta da spesse stratificazioni) che vengono di volta in volta affrontati di petto dopo essersi adeguatamente rafforzati.
Si può tuttavia esser tentati di bruciare le tappe scegliendo la seconda via solare, quella che le Nozze definiscono adatta soltanto agli esseri indistruttibili. Essa prevede che l’apertura della coscienza si attui anche con l’ausilio di mezzi esterni, ovvero l’assunzione di droghe specifiche o l’impiego di quelle forze che si liberano nell’orgasmo sessuale. È una via estremamente pericolosa perché nessuno sa in anticipo come il proprio Io potrà reagire all’applicazione di questi sistemi. Per fare un paragone, è come liberare la furia del berserker senza però scatenarla in una battaglia cieca ma guidandola fermamente e lucidamente. Gli alchimisti definivano droghe, sesso e sistemi analoghi col termine di “acque corrosive”, perché non agivano sciogliendo lentissimamente il guscio interiore ma lo corrodevano come un getto d’acido, spezzandolo di colpo. È la via più pericolosa, ma è anche la più antica, la prima praticata dall’umanità: risale all’esperienza sciamanica (residuo, ci dicono i tradizionalisti, di pratiche cultuali risalenti a remote civiltà scomparse) che era affidata soltanto ad individui a ciò predestinati. Si trasferì poi nei Misteri dell’antichità, come quelli di Eleusi, e nelle pratiche di certe congregazioni, come alcune sette del Tantrismo, dove era sottoposta alla vigilanza di classi sacerdotali appositamente addestrate. Ma fu trasmessa anche a diverse società iniziatiche, ed è attraverso di esse che è giunta fino a noi. Per la sua pericolosità, è tuttavia una pratica sulle cui specifiche operative è sempre stato richiesto il segreto, e sono scarsi e confusi gli accenni che se ne fanno nella letteratura magica corrente.
La distinzione fra pensiero magico e religioso è sottile ma, almeno per quanto riguarda le Tradizioni d’Occidente, può essere rimarcata nel fatto che la Magia prevede un atteggiamento sostanzialmente gnostico: ossia, affida la prospettiva d’elevazione individuale alla Sapienza (Sophia), non vedendola come semplice frutto della Fede (Pistis), che è libero dono di Dio. In altre parole, per il mago l’elevazione va duramente conquistata con un aspro tirocinio (Gnosis) in questa vita e non può essere vista, come per il fedele, come la prospettiva d’un premio certo dopo la morte fisica conseguente all’accettazione del dono divino e all’adeguarsi ad una serie di precetti di comportamento fissati dai preti. L’ingresso nel Paradiso degli Eroi – essi dicevano – si trova all’ombra delle spade: vi si perviene dopo una feroce “guerra santa” contro tutto ciò che contrasta il cammino – principalmente noi stessi.
Per questo, tutte le religioni “del libro” – sia esso libro la Torah, i Vangeli, il Libro di Mormon o i manuali di Scientology – sono ferocemente avverse al pensiero magico. Quest’ultimo prevede infatti lo sviluppo al massimo grado delle facoltà di pensare e di volere autonomamente da parte dell’adepto: e tali facoltà sono esattamente quelle che i “sacerdoti del libro” ritengono sia loro specifico mandato indirizzare e modellare, in nome di un Ente superiore del quale si pongono come i soli autentici interpreti. Nulla di ciò nella Magia, nella quale la parola chiave è libertà: libertà di scegliersi da soli il proprio cammino, libertà di eleggersi le guide che si desiderano, libertà di scavare nel proprio animo, affrontando ad occhi aperti ciò che vi si nasconde, libertà di individuare la propria meta. Di certo voleva significare questo Samuel Lyddell MacGregor Mathers, il vero fulcro della Golden Dawn delle origini, quando, come proprio motto, scelse la splendida frase Deo Duce, Comite Ferro: “Dio come unica guida, la Spada come sola compagna”.
- L’alba di un nuovo giorno
Non so se i dotti vittoriani britannici che fondarono l’Ordine Ermetico dell’Alba Dorata lo abbiano presagito (non mi stupirebbe), ma la loro opera fu davvero l’alba di un giorno nuovo. Le scaturigini della sapienza cui si rifecero erano diverse quanto erano diversi, come già accennato, coloro che le accolsero: la Kabbalah faticosamente decifrata sui testi originali (era ancora bene al di là da venire Gershom Scholem per dare dignità filologica a questi studi); la teurgia degli Oracoli Caldei reinterpretata da Proclo, Porfirio e Plotino; le conversazioni angeliche del dottor Dee nella sconosciuta lingua enochiana, dissepolte dai polverosi manoscritti nascosti nel British Museum; le filosofie e i sistemi magici induisti, cinesi e tibetani, riportati in auge dalla Società Teosofica; l’alchimia, riscoperta dallo studio dei grandi maestri inglesi come Filalete, Ripley e Fludd; la Magia Cerimoniale, estratta dai grimori pseudo-salomonici, la Chiave e il Lemegeton; e, ancora, l’ermetismo del Pimandro, i Tarocchi, le tecniche di veggenza ed estroflessione del Sé, le tradizioni egizie o presunte tali, le sapienze rosicruciane… Un catalogo infinito, un’immensa biblioteca di Babele dell’Occulto. Il miracolo è che da tutto ciò sia uscito un sistema non soltanto coerente, ma soprattutto efficace per la coltivazione dell’Io vero, che è l’autentico obiettivo dell’autentica Magia.
Non so, non voglio sapere, se vi sia stata una suprema Mano nascosta dietro tutto ciò. I documenti non ce lo dicono, le leggende sono contraddittorie, le testimonianze incoerenti e in più il tempo ha compiuto efficacemente la sua opera. I capi dell’Ordine – soprattutto MacGregor Mathers, che ne fu la vera anima e fu il principale autore della sintesi da cui scaturirono i mirabili rituali che scandivano per l’adepto i passi del cammino iniziatico – sostenevano di essere in contatto con quei Superiori Incogniti che erano le vere fonti della dottrina. Ma questo era un espediente consueto in tutte le società occulte, dalla massoneria esoterica alla teosofia. Anche l’inquietante madame Helena Petrovna, maritata Blavatsky, diceva la stessa cosa nell’elargire le sue Verità Supreme su cui venne fondata la Società Teosofica. Forse, in qualche misterioso intermundio, vi sono separati collegi di Superiori Incogniti che si scelgono i loro discepoli fra i mortali, secondo criteri a noi incomprensibili, e ad alcuni di essi rivelano il vero, ad altri propinano sogni assurdi.
C’è tuttavia un metodo infallibile per discernere il grano dal loglio, separando i veri dai falsi profeti. Questo metodo ce l’addita l’autorità dell’Evangelio: “Dai loro frutti, voi li riconoscerete” (Matteo, 7:16). E non c’è alcun dubbio che i frutti elargiti ai Maghi della Golden Dawn appaiano colti dagli alberi stessi del Gan Eden, profumati melograni ricolmi di gemme provenienti dal mistico frutteto del Pardes Rimmonim. Chiunque li abbia assaggiati può testimoniarlo.
Chi si accosta al mistico banchetto e accoglie i raggi dell’Alba d’Oro ne esce trasformato, non è più la persona di prima. Soprattutto, è in possesso di mezzi trascendenti per accrescere in modo mirabile la propria personalità, la propria spiritualità, il proprio intelletto (questo ultimo inteso come strumento per acquisire la vera conoscenza). Dal punto di vista kabbalistico, gli vengono consegnate le chiavi per aprire le Cinquanta Porte di Briah: sarà lui, poi, a scegliere quali serrature tentare, quali soglie attraversare. E potrà farlo da uomo libero, perché nessuna ideologia condizionante gli sarà impressa per pilotare le sue scelte. Anzi, si sarà sbarazzato delle pastoie, se c’erano, che ne imbrigliavano la volontà.
Uomini, nonostante tutto, del positivismo, i sapienti della Golden Dawn organizzarono un’architettura mirabile per dispensare le loro conoscenze: diedero cioè, di fatto, al loro Ordine la struttura di un college universitario, la suprema istituzione docente della civiltà britannica. Vennero istituite delle vere e proprie Facoltà, ciascuna con un suo Decano, per impartire i diversi insegnamenti: Simbolismo, Kabbalah, Veggenza, Magia Cerimoniale, Dottrine Rosa+Croce, e così via. Venne stabilito un preciso cursus studiorum, organizzato su cicli di lezioni ed esami periodici per impartire le diverse nozioni e verificare l’apprendimento dei partecipanti. Il superamento degli esami scritti, orali e pratici (come si fa per esempio nelle facoltà di Chimica o di Fisica, che prevedono anche prove di laboratorio) segnava il passaggio dei discepoli da un ciclo di studi all’altro, ovvero il loro avanzamento nei Gradi dell’Ordine. Il passaggio di grado degli adepti veniva celebrato con magnifiche cerimonie d’iniziazione, il cui profondo significato simbolico era esso stesso fonte di mirabile dottrina.
Nella scelta di quei maghi vittoriani di costituirsi come “università dell’occulto” in fondo non c’è nulla di strano. Le associazioni iniziatiche si evolvono di pari passo con la società e, di volta in volta, adottano procedure e simbologie idonee al contesto culturale in cui si muovono. Per questo certi testi antichi ci appaiono oggi incomprensibili: non perché volessero deliberatamente celare certe verità ma perché adottavano un linguaggio specifico che va studiato per essere compreso, come si studierebbero il cinese o l’industano. L’uso del simbolo non serviva a nascondere ma a far capire meglio il portato dell’insegnamento: se non lo comprendiamo, ciò accade soltanto perché oggi i simboli hanno assunto un valore diverso. Non c’è bisogno di nascondere deliberatamente al “profano” certe verità, perché egli non sarebbe comunque in grado di capirle e, in ogni caso, non gli interesserebbero: inutile celare le verità dello spirito a chi bada soltanto al proprio portafogli, al ventre o ai genitali. Lo stesso Evangelio, allorché esorta a non offrire perle ai porci (Matteo, 7:6), non allude al pericolo che essi possano mangiarsele o profanarle, ma semplicemente all’inutilità di porgere qualcosa di prezioso a chi desidera soltanto immondizia. L’obbligo del segreto veniva in genere osservato soltanto nei confronti delle pratiche più pericolose: quelle, cioè, che, se messe in opera da parte di persone non adeguatamente preparate, potevano generare una disgregazione psichica. Eminenti fra queste erano le istruzioni relative all’uso delle acque corrosive, che di solito venivano trasmesse oralmente, da iniziatore ad iniziando, e solo quando ve ne fosse effettiva necessità.
- L’immaginazione secondo Paracelso
Paracelso affermava che un grande potere d’immaginazione è l’ingrediente fondamentale di ogni operazione magica. Sapeva, ovviamente, quel che diceva, perché il mago deve ricostruire nel proprio pensiero simboli e procedure, operando in un particolare stato della mente, se vuole portare ad efficacia il rito che compie. I sapienti della Golden Dawn erano perfettamente d’accordo su questo. Sottolineavano tuttavia come il grande esoterista rinascimentale non parlasse semplicemente di immaginazione, ma ad essa aggiungesse il termine potere. Questo perché l’immaginazione efficace in magia non è la semplice elaborazione fantastica, l’oziosa divagazione cui tanto spesso ci abbandoniamo per evadere dalla noia, quanto piuttosto uno specialissimo potere della mente che va individuato, coltivato e, soprattutto, rafforzato con la volontà.
Grazie alla immaginazione accoppiata alla volontà la nostra fantasia assume vere e proprie capacità creatrici, nel senso proprio del termine: ovvero, elabora su piani più alti delle realtà “forme-pensiero”, che possono essere caricate di poteri magici ed anche visibilmente evocate. Questa procedura è molto complessa, richiede un lungo tirocinio da parte dell’operatore e prevede faticosi e ripetuti esercizi di concentrazione, meditazione e contemplazione (termini che non sono sinonimi ma individuano ben precise operazioni spirituali). Il tirocinio parte dal corpo, si esplica con la mente e si fissa nello spirito. Soltanto così potrà essere efficace, realizzando la compiuta operazione magica. Il corpo si addestra con esercizi simili a quelli dello yoga. La mente viene appunto allenata con pratiche di concentrazione, meditazione e contemplazione affinché, grazie all’immaginazione creatrice, possa dar vita a strutture ed entità autonome sui piani superiori dell’essere. Quindi, la coscienza di sé del mago e le sue facoltà intellettuali vanno trasferite nello spirito, che è una dimensione più rarefatta del suo essere, nella quale la volontà rettificata agisce come un atto puro. L’operazione è detta “trasferimento del senso di sé nel cuore”.
Grazie a queste esperienze, l’Io dell’operatore subisce una vera e propria trasmutazione alchemica e acquisisce nuove capacità di percepire ed operare. Era questo il senso che gli alchimisti davano all’espressione simbolica “trasmutare la materia vile in Oro”, ovvero innalzare la personalità ordinaria ad una nuova e più alta forma di coscienza. Immaginazione e volontà sono i due cardini di tutta l’operazione: nella Golden Dawn s’insegnava come coltivare e sviluppare queste facoltà con procedure apposite, spesso molto elaborate. A corollario di queste pratiche, l’immaginazione dell’adepto veniva stimolata particolarmente, specie con una pratica detta “veggenza”: trattavasi della capacità di spostare la propria coscienza percettiva, svincolata dal corpo, su piani simbolici ultraterreni, ed entrare in conversazione con le entità che li popolavano. Ciò che emergeva da queste pratiche era, per uno scrittore del fantastico, una materia narrativa già quasi preformata. Nessuna meraviglia, quindi, che per l’associazione magica vittoriana abbiano sentito attrazione scrittori già affermati, esordienti o aspiranti, o persone dall’immaginazione vivida che al contatto con tali esperienze scoprirono la propria vocazione narrativa.
L’elenco di tutte le persone di cui sia certa l’affiliazione alla Golden Dawn, o ad una delle sue incarnazioni successive, è compreso nel settimo volume della raccolta di testi completi della società esoterica, da me curato nel 2007 per le Edizioni Mediterranee (Insegnamenti magici della Goilden Dawn, in tre volumi, che si aggiungono ai quattro curati molti anni prima sempre dal sottoscritto insieme a Gianfranco de Turris). Scorrendolo, saltano subito agli occhi i nomi di importanti personalità della letteratura, a partire dall’irlandese William Butler Yeats, il poeta visionario che fu una delle voci più alte della letteratura in lingua inglese di tutti i tempi. Per lui, l’esperienza mistica nella Golden Dawn fu cruciale, circostanza che la critica ortodossa, accecata come al solito dal materialismo/razionalismo, ha compreso soltanto da poco. Il suo “nome magico” nell’associazione era piuttosto significativo: Daemon Est Deus Inversus. Ma, su un piano inferiore e ristretto alla narrativa fantastica, troviamo altri nomi di grande spessore. Innanzitutto, quello di Arthur Machen (aveva assunto due nomi, in due logge diverse, vale a dire Filius Aquarii e Avellaunus). Poi Algernon Blackwood (Umbram Fugat Veritas), che H. P. Lovecraft considerava fra i massimi, se non il maggiore, fra gli scrittori del soprannaturale. E poi ancora John William Brodie-Innes, i cui romanzi sulla stregoneria e il folklore scozzese godettero di enorme popolarità all’inizio del Novecento; Violeth Firth, più nota con lo pseudonimo Dion Fortune, direttamente mutuato dal suo nome magico Deo Non Fortuna; Mabel Collins, che fu anche membro eminente della Società Teosofica; Edith Nesbit, poetessa, disegnatrice e scrittrice di enorme successo; William Sharp, che insieme a Yeats fu una delle figure eminenti del movimento letterario noto come Celtic Revival; Alfred Percy Sinnett, romanziere, saggista e autore teatrale che fu figura eminente della Società Teosofica; Charles Williams, che con C. S. Lewis e J. R. R. Tolkien fu uno degli “Inklings”, un gruppo selezionato di intellettuali che soleva incontrarsi informalmente nell’appartamento di Lewis a Magdalen per discussioni letterarie e filosofiche, e ci ha lasciato alcuni romanzi di straordinaria profondità e bellezza. Le brevi biografie di questi autori, che ne mettono in luce i legami con la Golden Dawn e le sue filiazioni, sono incluse nell’opera a mia cura citata in precedenza. L’elenco potrebbe continuare con molti altri di minore rilevanza, che magari pubblicarono una sola opera narrativa direttamente ispirata dalle loro esperienze “magiche”. Potrebbe essere infoltito da altri ancora che si espressero sul piano della saggistica, con testi spesso di fondamentale rilevanza (un nome fra tutti, quello di Arthur Edward Waite), e diventerebbe una lista strabocchevole se vi aggiungessimo i pittori, illustratori e disegnatori la cui arte si rifece alle visioni ottenute con i sistemi di “viaggio astrale” insegnati nella Golden Dawn. Non siamo poi neppure certi che i nomi compresi nell’elenco noto siano tutti quelli inseribili: di molti autori, come Meyrink, Dunsany ed Eddison, si parla di una loro affiliazione alla società magica sotto pseudonimo, ma nessuna prova certa è mai emersa, in questo senso. D’altra parte, molti dei nomi compresi nell’elenco sono risultati non corrispondere ad una persona reale e non si sa chi vi si nascondesse.
Per capire il motivo di tanta presa sull’immaginazione letteraria delle pratiche visionarie della Golden Dawn, fondamentale è il ricorso alla “magia enochiana” di John Dee. Fra tutti i meriti ascrivibili alla Golden Dawn nella rinascita della Magia nel mondo moderno, uno dei più importanti è infatti l’aver riportato in auge il metodo di “conversazione angelica” cui si affidò per lunghi decenni della sua vita uno degli occultisti più grandi di tutti i tempi, il dottor John Dee (1527-1608), astrologo di corte della regina d’Inghilterra Elisabetta I nonché matematico, geografo, filologo, esperto militare e agente segreto per conto della Corona. Non sappiamo attraverso quali vie tale sistema, estremamente complesso ed elaborato, sia giunto sino a lui. Il dottor Dee disse che gliel’avevano comunicato gli angeli stessi attraverso un suo medium, tale John Kelly, personaggio dalla fama poco raccomandabile, che all’età di soli ventiquattro anni ebbe gli orecchi mozzi quale falsario di moneta. Comunque sia, il sistema si rivelò di un’efficacia spettacolare. Non sto a descriverlo, ma vorrei far notare come i sapienti dell’Ordine abbiano elaborato un modo del tutto diverso da quello di John Dee per interrogare gli angeli. Mentre il mago elisabettiano li invocava per poi farli presentare davanti a sé in presenza visibile all’interno di un cristallo, e porre loro domande ricevendone risposte mediante un codice complicatissimo, i veggenti della Golden Dawn andavano invece a consultare tali entità recandosi a trovarle a casa loro. In sostanza, usavano le cosiddette Tavole Enochiane (un’articolatissima “carta geografica” dei Mondi Ulteriori, in cui ogni regione ospita una classe particolare di esseri e creature ed è preposta ad una specifica intermediazione con il mondo di qua) come una griglia attraverso cui far scivolare la propria coscienza di sé, andando a compiere visite stupefacenti nei più diversi distretti dell’Altra Realtà.
fonte https://mikeplato.myblog.it/2018/05/22/magia-e-filosofia-della-golden-dawn/