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sabato 2 settembre 2017

Guerra agli ulivi


di Alexik
C’è un esercito schierato nelle campagne salentine, un esercito di guerrieri grandi e forti.
Saldi sulla terra si ergono ad ostacolo contro ogni speculazione possibile.
Proteggono quei suoli da chiunque abbia intenzione di trasformarli in distese infinite di centri commerciali, resorts, spianate di fotovoltaico, coltivazioni industriali intensive, corridoi per gasdotti.
È un esercito di undici milioni di ulivi, eredi di una storia millenaria, incomprensibile per chi misura il tempo con i ritmi angusti dei mandati elettorali.
Essi sono la cultura di quei luoghi, il sapere tramandato dalle generazioni, contrapposto all’erudizione prezzolata dei tecnocrati.
Sono l’ossigeno che diluisce i veleni dei disastri chimici dell’Ilva e di Cerano, unico lascito di quel modello industrialista che un tempo promise al meridione magnifiche sorti e progressive.
Sono la bellezza delle sculture tormentate dei tronchi, l’ombra che rinfresca la terra, opposta allo squallore soffocante delle cattedrali di cemento.
Per questo vanno abbattuti.
Non sono compatibili con una prospettiva di sviluppo predatorio che necessita di un salto di qualità nella messa a profitto dei territori.
Da almeno vent’anni insigni cattedratici ne denunciano l’obsolescenza tecnologica, la scarsa produttività, l’inadeguatezza competitiva.
Da almeno vent’anni una malattia ne mette a rischio l’esistenza.
E non si tratta del CoDIRO, il ‘Complesso del disseccamento rapido’ che oggi sta bruciando le fronde degli ulivi dal Ca
po di Leuca al brindisino, ma una malattia del tutto umana.

Neoliberismo agricolo

Il contagio ebbe inizio a Barcellona nel novembre 1995, quando nella città catalana si incontrarono i rappresentanti dell’Unione Europea e di dieci Stati dell’Africa del nord e del Medio Oriente1.
La strategia dell’U.E. per la regione mediterranea puntava alla creazione di un’area di libero scambio che eliminasse gli ostacoli ai commerci e agli investimenti, quali i dazi doganali e le restrizioni all’import/export.
L’European Union-Mediterranean Free Trade Area (EMFTA) vide la luce il 1° gennaio del 2010, prevedendo, fra le altre cose, la libera importazione nei paesi UE di oli extravergine a basso costo provenienti dal Sud del Mediterraneo.
Fu allora che stimati professori universitari cominciarono ad accusare gli ulivi della tradizione italiana di necessitare di troppa manodopera, troppo costosa rispetto a quella dei competitor.
Proposero quindi di “
innovare l’esistente con modelli colturali alternativi a quelli tradizionali, che consentissero una reale riduzione dei costi di produzione, soprattutto attraverso l’abbattimento del fabbisogno di manodopera, che ancora oggi incide per oltre l’80% sui costi totali di produzione delle olive.”2
Oltre alla manodopera, veniva considerata rottamabile l’85% dell’olivicoltura nazionale – quella destinata alla produzione di largo consumo – ad esclusione degli uliveti dedicati all’extravergine ad altissimo controvalore, e di oasi paesaggistiche da preservare possibilmente a spese “degli imprenditori del settore agrituristico/alberghiero” che ne traggono beneficio (sic).
La ricetta degli accademici prevedeva di installare, in alternativa, degli impianti olivicoli super intensivi ad alta resa, composti da fitti filari di cespugli bassi e tristi.
Piante tutte uguali, appositamente selezionate e brevettate, senza chioma e senz’ombra, senza rami laterali per non ostacolare i mezzi di raccolta.
Piante per un’agricoltura ad alta meccanizzazione, un’agricoltura labour saving, povera di alberi e di lavoratori della terra.
Quanto alle preoccupazioni di carattere sociale, più passa il tempo, più esse perdono importanza siccome la popolazione italiana attiva dedita all’agricoltura diminuisce costantemente e tende a diventare sempre più rara e più cara. Al censimento del 1951, detta popolazione era il 41,8% (in Italia Meridionale oltre il 60%), mentre nel 2001 era scesa al 5,2% (in Italia Meridionale l’11%).
Poiché l’abbandono delle campagne è fenomeno irreversibile che ancora continua, al prossimo censimento del 2011, quelle percentuali risulteranno essersi ulteriormente abbassate, con alleggerimento degli aspetti sociali, ma con aggravamento dei problemi di reperimento e costo della manodopera.”3
Il ragionamento è di Angelo Godini, direttore, fino al 2011, del Dipartimento di Scienze delle Produzioni Vegetali dell’Università di Bari.
Una riflessione che esprime l’alta sensibilità sociale dell’autore. Della serie: visto che le forze di lavoro in agricoltura si riducono, introduciamo metodi di coltivazione che le riducano ancora di più.
È bello sentirselo dire in tempi di crisi occupazionale.
Godini è uno dei pionieri del super intensivo, promotore dei primi campi di sperimentazione in Puglia4:
Un viaggio compiuto in Catalogna nel novembre 1999, divenne occasione per convincerci ad avviare in Puglia studi sul modello di olivicoltura superintensiva, con meccanizzazione integrale di tutte le operazioni colturali …. Chi scrive, insieme con i suoi collaboratori (S. Camposeo, G. Ferrara, A. Gallotta e M. Palasciano) e col Prof. F. Bellomo, del Dipartimento PRO.GE.SA dell’Università di Bari, si attribuisce il merito d’avere intuito per primo in Italia le potenzialità di quell’innovativo modello, cominciando a valutarle a partire dal 1999“.5
Ma cosa c’era in Catalogna di così interessante ?
Dal 1994 vi era ospitato il primo oliveto ad alta densità. Era stato ideato e sperimentato dalla società vivaistica Agromillora Catalana SA, di proprietà del Gruppo dei Sumarroca, una famiglia di imprenditori ‘pesanti’ nella regione, legati al nazionalismo catalano liberal conservatore6.
Gli oliveti di Agromillora presentavano una densità di 1600-1800 piante/ettaro e la meccanizzazione integrale delle operazioni colturali.
Non tutte le varietà di ulivi si prestavano al modello. Erano necessarie varietà a bassa vigoria, accrescimento contenuto, rapida entrata in produzione. Si adattavano meglio delle altre le spagnole Arbequina e Arbosana, e la greca Koroneiki.
Presto la ricerca avrebbe prodotto e brevettato cloni e varietà appositamente pensate per le colture super intensive, come l’Arbequina i-18® e la Koroneiki I-38®, sviluppate dall’IRTA7, o la SikititaP, prodotta nel programma di miglioramento genetico della UCO-IFAPA8, o l’Oliana®, ottenuta da Agromellora. In Italia si adattavano la FS-17®, o ‘Favolosa’, e la Don Carlo®, prodotte dal CNR di Perugia.
Si tratta in molti casi, di ricerca pubblica svolta sulla base di partnership con aziende private. Agromillora è maestra in questa senso: ha in attivo collaborazioni con numerosi atenei spagnoli e statunitensi, con l’Alma Mater bolognese, con l’EMBRAPA del Governo brasiliano, con lo U.S. Department of Agriculture, con l’italiano CRA (Consiglio per la Ricerca e la sperimentazione in Agricoltura)…
E con l’Università di Bari (Dipartimento di Scienze Agro Ambientali e Territoriali) nell’ambito di una convenzioneper la ‘Valutazione, brevettazione e commercializzazione di nuove selezioni di olivo a bassa vigoria‘.
Un accordo che prevede a favore dell’Università ‘
il 70% delle royalties sul fatturato annuo derivante dallo sfruttamento del brevetti9, e nel cui ambito è stata sviluppata la ‘Lecciana’, come evoluzione super intensiva del Leccino10.
E’ interessante tanta corrispondenza di amorosi sensi fra pubblico e privato, in un connubio dove l’interesse privato trae linfa per le proprie attività dalla ricerca pubblica, e dove quest’ultima mutua dal privato la propensione al profitto.
Ma il risultato finale di cotanta evoluzione dell’umano sapere andrà a favore degli esseri viventi, umani o vegetali, esclusi dal connubio ?
Sull’altra sponda
Parlavamo di un’agricoltura senza lavoratori della terra.
E’ il modello che ci viene proposto 
per affrontare i nemici dell’italico olio: quegli operai agricoli ‘maghrebini, turchi, giordani’11 che prendono 0,50-0,60 €/h.
Solo che … siamo sicuri che agli operai agricoli maghrebini qualcuno non stia facendo lo stesso discorso? E poi che la mano invisibile dei mercati non appartenga proprio a nessuno ?
Non sorge il dubbio che sia guidata da un vasto insieme di soggetti che la muovono secondo i loro interessi ?
Prendiamone uno a caso (ma proprio a caso): Agromillora.
Oggi è una multinazionale leader dell’agricoltural 
technology, specializzata nella produzione e commercializzazione di specie legnose ad alta resa (non solo olivi, ma anche agrumi, viti e alberi da frutto). E’ presente con vivai e laboratori di ricerca in 9 paesi e 5 continenti, e nel 2016 ha venduto nel mondo 65 milioni di piante.
Poco prima dell’inaugurazione dell’EFTA, Agromillora ha cominciato a dislocare vivai e laboratori di ricerca in Marocco, Tunisia e Turchia, per promuovere anche sull’altra sponda del Mediterraneo l’espansione di colture super intensive (olivicole e non) destinate all’esportazione verso l’Europa, finalmente libera da quote e dazi. Nel 2015 ha aperto un nuovo vivaio anche in Giordania.
L’agricoltura labour saving dunque si è espansa anche al di là del mare, e lo ha fatto inizialmente con capitali europei, gli stessi che applicando le stesse tecnologie bruciano lavoro in madre patria.
Certo potrebbe sembrare un paradosso il fatto che l’impresa dei nazionalisti catalani Sumarroca, che tanto ha contribuito a fare della Catalogna la patria del super intensivo, ora lavori per annullarne il vantaggio competitivo promuovendo le colture ad alta resa dei competitor.
Se non fosse che oggi 
Agromillora non è più dei Sumarroca: è stata acquisita prima al 49% dal fondo speculativo spagnolo NAZCA, che nel 2016 ne ha ceduto le quote ad Investcorp, un altro fondo speculativo del Bahrain. Quest’ultimo detiene attualmente la maggioranza della società e della Catalogna se ne frega.
Se i profitti volano in Bahrain, in Spagna in compenso arrivano le royalties per le vendite delle piante brevettate.Agromillora infatti, in Nord Africa e Asia Minore, continua a diffondere le coltivazioni di Arbequina, Arbosana, Koroneiki, Sikitita, cioè le poche varietà che si adattano al superintensivo. Scarse sono le varietà locali adattabili, come la Chemlali e la Chetoui tunisine.
In generale, ovunque si estenda questo sistema, le varietà brevettate tenderanno a soppiantare le autoctone, con una perdita netta di biodiversità e una standardizzazione delle produzioni destinate al consumo di massa.
L’intero Mediterraneo potrebbe ritrovarsi a produrre olio di oliva uniforme in termini di qualità (non eccelsa) e sapori, la cui sola differenziazione sarà data dal prezzo, con un’ulteriore accellerazione della corsa al ribasso. E in questi casi, il primo a farne le spese è sempre il lavoro.
Non solo quello dei braccianti.
Tendenzialmente l’agricoltura ad alta densità fa volentieri a meno anche dei contadini.
E’ un’agricoltura per imprenditori e investitori, che necessita di capitali iniziali e di vaste quantità di terra dove installare le piantagioni. Va di pari passo con i processi di concentrazione della proprietà terriera, come in Marocco, dove l’Olea Capital, un fondo di investimento creato dal Crédit Agricole du Maroc e dalla Société Générale, ha sviluppato piantagioni di olivi ad alta densità per migliaia di ettari.
Gli appezzamenti piccoli e medi dei contadini tradizionali, la loro scarsa possibilità di spesa, sono un ostacolo.
Olivicoltura super intensiva. Piantagione finanziata da Olea Capital in Marocco.
Su questa sponda
Su questa sponda il bilancio morale non è molto positivo.
Autorità accademiche e della ricerca pubblica del vecchio continente (finanziate da noi) partecipano a partnerships fra pubblico e privato che hanno come esito finale la distruzione di lavoro e di biodiversità, oltre alla crescita dei profitti per le imprese dell’agricoltural technology e per i fondi di investimento speculativi.
Ma il capitalismo morale non ne ha.
Intanto, nel bel paese, nonostante tutti gli sforzi di accademici e scienziati, l’olivicoltura super intensiva ha avuto fino ad ora poca fortuna, con 1.200 ettari dedicati su 1.185.000 coltivati ad olivo a livello nazionale12.
Nella zona che frequento io, nel basso Salento, la maggior parte dei contadini non ha i capitali necessari all’allestimento degli impianti, né estensioni di terra tali da renderli convenienti.
Ma anche le aziende agricole più strutturate, attente al rapporto costi benefici, si chiedono perché mai dovrebbero piantare migliaia di arbustelli, aspettando tre anni prima che entrino in produzione ed estirpandoli al 15° (perché tale è la durata della loro produttività), quando hanno a disposizione degli ulivi che campano da secoli o decenni, e fruttificano ad ogni autunno senza tante interruzioni.
Perchè mai dovrebbero piantare cespugli che necessitano assolutamente di irrigazione, in una terra scarsa di pioggia e priva di fiumi, quando gli ulivi tradizionali se la cavano benissimo senza aggiunta di acqua ?
Perché mai dovrebbero spendere di più in erbicidi e fitofarmaci che l’olivicoltura intensiva richiede in maggior quantità ? O pagare i vivai e le royalties per ricomprare le piante ogni 15 anni ?
Anche alcune analisi sulle riviste specializzate dicono che non conviene (qui e qui).
A meno che ….
A meno che un’epidemia non inizi a disseccare gli uliveti.
A meno che l’Unione Europea, su consiglio di illustri cattedratici, non ne imponga la distruzione (e non la cura).
A meno che non si permetta di reimpiantare nelle zone infette solo quelle cultivar che, casualmente, meglio si adattano al modello superintensivo.
Ma sarebbe fantascienza.
O forse la storia di oggi

fonte https://www.carmillaonline.com/2017/09/03/guerra-agli-ulivi/

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