di Enrico Galoppini
Passato qualche giorno dall’ultimo referendum, vorrei proporre una breve ma basilare riflessione sul senso di recarsi al seggio elettorale per esprimersi sulle più disparate questioni, quando per decidere avremmo in teoria tutto un personale politico stipendiato e preposto ad occuparsene nel migliore dei modi, e cioè nel rispetto dell’interesse nazionale.
Lasciamo stare il non trascurabile dettaglio che questi referendum, quorum o no, non determinano quasi mai il risultato uscito apparentemente dalle urne: gli italiani non intendono rinunciare all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori? Ci pensa ‘Renzie’ col “Jobs Act” a farne carta straccia. L’acqua deve restare pubblica nei secoli dei secoli? Figuriamoci, già il giorno dopo la loro disfatta stavano studiando il modo di accaparrarsela per vendercela a peso d’oro.
E sorvoliamo anche sul fatto che quasi nessuno si rende conto che ogni referendum riguarda un aspetto particolarissimo della materia in questione, com’è stato in quest’ultimo caso delle “trivelle”, mentre in altre situazioni non c’era assolutamente modo di capirci nulla se non procurandosi in fretta e furia un’apposita “laurea”.
Di fatto, l’unico referendum che è stato chiarissimo per tutti è stato quello concernente il divorzio: il povero Fanfani, che aveva già capito che si cominciava con lo “scoppiarsi” e si finiva con “l’ideologia di genere”, ci fece la figura del pirla, ma almeno passerà alla storia come un esempio di coerenza fino alla débacle preannunciata.
Non altrettanto si può dire di chi trasforma ogni referendum in un “test” per il governo: è uno spettacolo troppo pietoso, tra chi si pavoneggia per un goal a porta vuota (che ci vuole a mandare “in gita” gente svogliata e menefreghista come gli italiani?) e chi canta vittoria anche quando ha incassato un “cappotto”. Tutto penoso e ridicolo, in un Paese che non sceglie più un governo ma può sottoporre a referendum tutto quel che vuole.
La “Costituzione più bella del mondo”, già all’art. 1 afferma che “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Tra l’altro, un generico “popolo”, e non “il popolo italiano” o “la nazione italiana”: nel 1948 poteva sembrare superfluo stabilire l’italianità di questo “popolo”, ma oggi non lo è più e ci starebbe bene una precisazione in tal senso.
E sempre a proposito di “sovranità”, la medesima Carta, all’art. 7, ricorda che lo Stato e la Chiesa Cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”: che strano, stai a vedere che siamo sudditi anche del Vaticano e del “Papa buono” di turno?
Ma pensiamo a una cosa per volta.
Art. 11, quello brandito dai “pacifisti” ogni volta che l’Italia va in “missione di pace”: “L’Italia […] consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranitànecessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni: promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
E qui si perfeziona l’inghippo: sì, va bene, “il popolo” è sovrano, secondo i modi stabiliti dalla Costituzione, ma l’Italia, ovvero lo Stato italiano occupato da un ceto politico accuratamente “selezionato”, può tranquillamente stabilire delle limitazioni alla “sovranità popolare”, in nome della “pace” e della “giustizia”, in favore di non meglio precisate “organizzazioni internazionali”.
L’Italia, infatti – ovvero la Repubblica Italiana che è un ente di fatto più che di diritto in quanto non è mai stato chiarito come, a termini “di legge”, s’è chiusa la partita nel 1945 -, si è fin da subito presentata agli Italiani come un’entità non pienamente sovrana, pertanto non c’è da stupirsi se, al termine di una parabola discendente che ci ha condotto al punto in cui un presidente del Consiglio (Mario Monti) elogia le cessioni di sovranità, l’unico referendum serio e degno di essere fatto sarebbe quello sulla permanenza dell’Italia stessa, e cioè del suo “popolo sovrano”, sotto il tallone dell’America e della Nato, ma anche di tutti gli altri organismi “internazionali” e “sovranazionali” come la cosiddetta “Unione Europea”, i quali ci hanno ridotto in un tempo relativamente breve ad una controfigura di noi stessi.
Da Paese di santi, eroi e navigatori a bordello nel quale chiunque si presenti con qualche pretesa viene accontentato e chi comanda per davvero sa che – siccome ci teme – il miglior modo per neutralizzarci è mantenerci in un perpetuo stato d’istupidimento e di servitù.
Ma un referendum siffatto, quand’anche lo si volesse organizzare, non si saprebbe nemmeno come formularlo, in quanto esistendo solo il referendum di tipo abrogativo (di una legge, o di parte di essa, s’intende), un quesito sulla permanenza del’Italia nella Nato da sottoporre al “popolo sovrano” mancherebbe delle necessarie basi “giuridiche”, di fatto inesistenti.
Nessuno infatti sa in base a quale legge – se non quel sibillino art. 11 della Costituzione – dobbiamo lustrare le scarpe all’America.
Dicono che ci siano degli “accordi”, talmente consensuali – ma segreti, come le clausole del cosiddetto “armistizio” e della conseguente resa incondizionata – che… non ce li fanno vedere. Inutile cercarli: è più facile trovare la copia originale dei Dieci Comandamenti.
A che cosa serva quest’imperitura “alleanza” che è impossibile non solo sciogliere, ma anche solo da vivere in una condizione minimamente dignitosa, a questo punto è chiaro: a farci fallire definitivamente e consegnarci alla “storia”, tutt’al più mantenuti in vita come elementi pittoreschi da far fotografare ai turisti e come “reception” della nuova Europa ad immagine e somiglianza (“multietnica”) dell’America.
In queste condizioni non è utile né sensato andare a votare per la responsabilità civile dei giudici, la separazione delle carriere dei magistrati inquirenti e giudicanti, il finanziamento pubblico ai partiti, la disciplina della caccia, il divieto di partecipazione dell’Enel a impianti nucleari all’estero, le privatizzazioni: è tutto perfettamente inutile, oltre che un raggiro, in quanto l’Italia (“la Repubblica Italiana”) prende ordini da fuori, e quando non ce la fanno con le vie “parlamentari” ad imporre la loro linea, ci provano coi “referendum”, nei quali il “popolo sovrano” sovente s’è dato la classica zappa sui piedi senza rendersi conto di quali interessi, diversi da quello “nazionale”, stava favorendo.
In questa situazione a dir poco disperata, possiamo ancora parlare, al riguardo degli Italiani, di “popolo sovrano”?
Fonte: Il Discrimine | via Controinformazione
Nessun commento:
Posta un commento