DI ALCESTE
pauperclass.myblog.it
Sto leggendo con piacere e una punta di disperazione un libro di Jean Raspail, I nomadi del mare.
È fuori catalogo (logico che lo sia) così come la distopia di Raspail, Il campo dei santi (1973), dove è preconizzata la fine dell’Europa a causa di un’ondata migratoria inarrestabile.
I nomadi del mare è un romanzo-saggio sugli Alacaluf, un popolo che oggi non esiste più, e che abitava le terre dell’estremo Sudamerica, protese verso i ghiacci del Polo Sud. Gli Alacaluf (il loro nome indigeno era Kaweskar, gli Uomini) si estinsero a partire da un incontro fatale: quello con le golette di Magellano (1520), in rotta per le Indie traverso la Terra del Fuoco. A contatto con la diversità schiacciante degli europei (gli dei sconosciuti, le malattie, la repressione, l’alcolismo, la mortifera compassione) la cultura paleolitica dei Kaweskar si sbriciolò lentamente.
È fuori catalogo (logico che lo sia) così come la distopia di Raspail, Il campo dei santi (1973), dove è preconizzata la fine dell’Europa a causa di un’ondata migratoria inarrestabile.
I nomadi del mare è un romanzo-saggio sugli Alacaluf, un popolo che oggi non esiste più, e che abitava le terre dell’estremo Sudamerica, protese verso i ghiacci del Polo Sud. Gli Alacaluf (il loro nome indigeno era Kaweskar, gli Uomini) si estinsero a partire da un incontro fatale: quello con le golette di Magellano (1520), in rotta per le Indie traverso la Terra del Fuoco. A contatto con la diversità schiacciante degli europei (gli dei sconosciuti, le malattie, la repressione, l’alcolismo, la mortifera compassione) la cultura paleolitica dei Kaweskar si sbriciolò lentamente.
Scrive Raspail:
“A Puerto Eden morivano gli ultimi resti dei clan Alacaluf. Non morivano di fame … si spegnevano di disperazione, uno dopo l’altro, nella lunga notte della loro memoria. I morti non venivano sostituiti. Non mettevano più al mondo bambini perché si sapevano condannati. Erano consci che nel mondo dei vivi non c’era più posto per loro …“.
Il crollo demografico è sempre indice di decadenza, mai di progresso. Anche tale popolo, che non aveva parole per indicare la felicità e la bellezza, morì quando si trovò privo del proprio ambiente, dei modi di vita, delle usanze, della lingua, delle comuni paure, persino delle consuetudini più aspre e che rendevano l’esistenza fragile e pericolosa.
Pericolosa, ma dotata di senso.
Essere sé stessi: ecco il cuore del problema. Essere sé stessi, a dispetto di una morale altra, a costo dello scandalo, ecco la felicità. È un mio sospetto: i Kaweskar non avevano parole per la felicità e la bellezza solo perché la loro vita ne era già impregnata, al di là delle sofferenze che imponeva la sopravvivenza quotidiana.
Raspail rimarrà ossessionato da un’immagine, risalente al 1951:
Pericolosa, ma dotata di senso.
Essere sé stessi: ecco il cuore del problema. Essere sé stessi, a dispetto di una morale altra, a costo dello scandalo, ecco la felicità. È un mio sospetto: i Kaweskar non avevano parole per la felicità e la bellezza solo perché la loro vita ne era già impregnata, al di là delle sofferenze che imponeva la sopravvivenza quotidiana.
Raspail rimarrà ossessionato da un’immagine, risalente al 1951:
“… Durante un viaggio nella Terra del Fuoco, attraversando lo Stretto di Magellano, vidi, per non più di un’ora, nel vento e sotto la neve, una delle ultime imbarcazioni degli Alacaluf. La scena era identica a quella descritta da altri viaggiatori: Byron, Bouganville, Dumont d’Urville, l’ammiraglio Barthes e … José Emperaire. Non la dimenticherò mai. Mi ha ossessionato … finalmente questa volta la esorcizzo dandole, spero, la sua vera dimensione, sulla misura dell’eternità in cui riposa ormai questo popolo. Questo incontro all’incrocio dei tempi è la base del mio libro: un po’ di braci in mezzo alla barca per far rinascere il fuoco, due donne coperte di stracci, un bambino triste, tre rematori con uno sguardo da altro mondo …“.
Questo incontro fortuito donerà ai Kaweskar una minuscola: in tal modo, inconsapevoli, essi si garantirono il cantore dei loro ultimi giorni. Raspail divenne l’Omero degli ultimi Uomini.
Anche Werner Herzog cantò di ultimi uomini. In un cortometraggio di pochi minuti (Ten thousand years older, 2002) egli resoconta un’altra estinzione, quella della tribù Uru-Eu-Wau-Wau, rimasta isolata ed integra per millenni nelle profondità della giungla amazzonica e ancora ferma al neolitico.
Nel 1981 l’avanzata dei coloni brasiliani e dei cercatori d’oro rompe l’incantesimo: occidentali e indios entrano in contatto. Dopo vent’anni (2001) Herzog torna nei luoghi che testimoniarono l’incontro. La giungla, violata, formicola ormai di attività umane; si levano fuochi da disboscamento; gli alberi sono schiantati per far posto ai carriaggi; la tribù, che, in pochi mesi, è stata decimata dalla varicella e dalla comune influenza, è ridotta a poche decine di individui. Il trauma del progresso (“a progress into the void”) li ha annichiliti. Tari, il capotribù, e Wapo, suo fratello, sono ancori vivi, ma regnano su una comunità di fantasmi. I due sono degli sconfitti: mostrano a beneficio della telecamera (dei vincitori) esperienze e saperi che ormai saranno dissolti nell’indifferenza: come fabbricare frecce senza metalli (incidendo l’asta con il dente di un roditore) oppure come avvivare il fuoco tramite la frizione del legno; le conquiste occidentali, che pure hanno conosciuto, li lasciano freddi; il tempo ciclico dei movimenti solari e lunari o l’eternità sempre viva del passato leggendario rende loro incomprensibile la concezione occidentale del tempo, definito dall’imperio del presente. Entrambi hanno conosciuto l’amore di donne bianche: ne parlano come due adolescenti imbarazzati, due timidi fanciulli destinati alla morte più atroce, quella dell’oblio; Tari mima un canto rituale di guerra, ma la tubercolosi gli impedisce di continuare; la civiltà, come un tumore inarrestabile, sta disfacendo il corpo del re; l’anima del popolo morirà di conseguenza: già il nipote, Pablo, si vergogna d’appartenere alla propria gente, ne disconosce la lingua, si prepara a diventare un buon brasiliano, un uomo dei nuovi tempi.
Gli Alacaluf scomparvero in cinque secoli, gli Uru-Eu-Wau-Wau in vent’anni.
L’orologio del Nulla ha preso a correre.
L’Italia farà la stessa fine, ne sono certo. Non serviranno certo cinque secoli, forse nemmeno cinquant’anni. L’estinzione genetica dell’Italia è già in atto, quella sociale procede a grandi passi; la disfatta della cultura che ci teneva uniti, volenti o nolenti, è quasi compiuta.
L’Italiano, in media, non riconosce ormai il proprio passato. Le opere dell’ingegno e le mirabiliae del tempo si ergono davanti a lui indecifrabili, come manufatti alieni.
La civiltà classica, da cui deriviamo, è totalmente sconosciuta; così come i padri della Chiesa, il Medioevo e il Rinascimento; persino scrittori e artisti a noi prossimi (Gadda, Belli) rilevano come reliquie invece d’essere generatori di civiltà.
La lingua nemmeno ci appartiene: chi parla in Italiano oggi?
Osereste appellare come Italiano un laido dialetto di poche centinaia di vocaboli, ingaglioffito da barbarismi stupidissimi, irto di reiterazioni e afasie?
Va da sé che non controllare il proprio linguaggio materno equivale a cedere la sovranità delle proprie azioni.
Va da sé che l’impoverimento e la riduzione d’esso a pochi vocaboli implica, con un nesso causale implacabile, la riduzione nella creazione di concetti e, perciò, la condanna all’incomprensibilità del reale.
Sull’estinzione dell’Italia (traevo spunto da un episodio di vandalismo archeologico) scrissi, tempo fa, un breve articolo:
Anche Werner Herzog cantò di ultimi uomini. In un cortometraggio di pochi minuti (Ten thousand years older, 2002) egli resoconta un’altra estinzione, quella della tribù Uru-Eu-Wau-Wau, rimasta isolata ed integra per millenni nelle profondità della giungla amazzonica e ancora ferma al neolitico.
Nel 1981 l’avanzata dei coloni brasiliani e dei cercatori d’oro rompe l’incantesimo: occidentali e indios entrano in contatto. Dopo vent’anni (2001) Herzog torna nei luoghi che testimoniarono l’incontro. La giungla, violata, formicola ormai di attività umane; si levano fuochi da disboscamento; gli alberi sono schiantati per far posto ai carriaggi; la tribù, che, in pochi mesi, è stata decimata dalla varicella e dalla comune influenza, è ridotta a poche decine di individui. Il trauma del progresso (“a progress into the void”) li ha annichiliti. Tari, il capotribù, e Wapo, suo fratello, sono ancori vivi, ma regnano su una comunità di fantasmi. I due sono degli sconfitti: mostrano a beneficio della telecamera (dei vincitori) esperienze e saperi che ormai saranno dissolti nell’indifferenza: come fabbricare frecce senza metalli (incidendo l’asta con il dente di un roditore) oppure come avvivare il fuoco tramite la frizione del legno; le conquiste occidentali, che pure hanno conosciuto, li lasciano freddi; il tempo ciclico dei movimenti solari e lunari o l’eternità sempre viva del passato leggendario rende loro incomprensibile la concezione occidentale del tempo, definito dall’imperio del presente. Entrambi hanno conosciuto l’amore di donne bianche: ne parlano come due adolescenti imbarazzati, due timidi fanciulli destinati alla morte più atroce, quella dell’oblio; Tari mima un canto rituale di guerra, ma la tubercolosi gli impedisce di continuare; la civiltà, come un tumore inarrestabile, sta disfacendo il corpo del re; l’anima del popolo morirà di conseguenza: già il nipote, Pablo, si vergogna d’appartenere alla propria gente, ne disconosce la lingua, si prepara a diventare un buon brasiliano, un uomo dei nuovi tempi.
Gli Alacaluf scomparvero in cinque secoli, gli Uru-Eu-Wau-Wau in vent’anni.
L’orologio del Nulla ha preso a correre.
L’Italia farà la stessa fine, ne sono certo. Non serviranno certo cinque secoli, forse nemmeno cinquant’anni. L’estinzione genetica dell’Italia è già in atto, quella sociale procede a grandi passi; la disfatta della cultura che ci teneva uniti, volenti o nolenti, è quasi compiuta.
L’Italiano, in media, non riconosce ormai il proprio passato. Le opere dell’ingegno e le mirabiliae del tempo si ergono davanti a lui indecifrabili, come manufatti alieni.
La civiltà classica, da cui deriviamo, è totalmente sconosciuta; così come i padri della Chiesa, il Medioevo e il Rinascimento; persino scrittori e artisti a noi prossimi (Gadda, Belli) rilevano come reliquie invece d’essere generatori di civiltà.
La lingua nemmeno ci appartiene: chi parla in Italiano oggi?
Osereste appellare come Italiano un laido dialetto di poche centinaia di vocaboli, ingaglioffito da barbarismi stupidissimi, irto di reiterazioni e afasie?
Va da sé che non controllare il proprio linguaggio materno equivale a cedere la sovranità delle proprie azioni.
Va da sé che l’impoverimento e la riduzione d’esso a pochi vocaboli implica, con un nesso causale implacabile, la riduzione nella creazione di concetti e, perciò, la condanna all’incomprensibilità del reale.
Sull’estinzione dell’Italia (traevo spunto da un episodio di vandalismo archeologico) scrissi, tempo fa, un breve articolo:
A metà d’esso chiosavo:
“Mi chiedo quale fine faranno l’Italiano e gli Italiani, a cui mi sento ormai estraneo come un Cincinnato voglioso di aratro più che di impegno pubblico.
La fine degli Incas, ridotti a dar nome a una marca di articoli da trekking (Quechua)?
O magari quella delle stirpi iraniche (Nissan Qasqai)?
O degli indiani Cherokee (Jeep Grand Cherokee)?“
La fine degli Incas, ridotti a dar nome a una marca di articoli da trekking (Quechua)?
O magari quella delle stirpi iraniche (Nissan Qasqai)?
O degli indiani Cherokee (Jeep Grand Cherokee)?“
Il lato grottesco dell’estinzione dell’Italia è che non c’è nessuna potenza straniera oggi ad assoggettarci. Nessun popolo superiore. Nessun Magellano. Solo uno squallido imperialismo culturale che opera attraverso i media internazionali tramite il politicamente corretto, la pornografia, l’inferno tecnologico.
Esso statuisce: “Il passato è il male. I Paesi e i popoli sono il male. Il presente è il bene. Il futuro non esiste“.
Siamo oltre Orwell; oltre il bene e il male, in pieno territorio nichilista.
Nietzsche aveva torto: abolire il bene e il male non ha recato un’umanità viva e libera bensì l’esatto opposto: la poltiglia culturale, l’entropia morale, il servaggio abietto, la rinuncia.
Il potere teme un solo tipo d’uomo: colui che giudica il mondo secondo antichi sentimenti e da quelli si lascia comandare incurante dello scandalo di cui lo accuseranno inevitabilmente: d’essere un malvagio (nazista, razzista, omofobo e via cantilenando).
Il potere unico teme un solo tipo d’uomo: chi ricorda il passato e agisce di conseguenza.
Il potere unico ha terrore del passato, poiché nel passato, al di là della sofferenza, come per gli Alacaluf, aveva territorio la breve felicità e la bellezza. E per questo, poiché ne ha terrore, che deve continuamente ammonirci, sino allo sfinimento: vedete come eravamo malvagi! Ora non più! Vedete come il mondo era diviso e cattivo? Ora non più! Vedete quanta infelicità? Ora non più: crogiolatevi al sole del nostro Eldorado morale! E ricordatevi che alla cassa non si accettano contanti!
E il potere unico avrebbe terrore degli Italiani, se questi fossero ancora fedeli a sé stessi e alla propria storia e non se ne vergognassero per rispetto alla nuova etica globalista.
Ah, quale verità scrisse quel porco di Destouches:
Esso statuisce: “Il passato è il male. I Paesi e i popoli sono il male. Il presente è il bene. Il futuro non esiste“.
Siamo oltre Orwell; oltre il bene e il male, in pieno territorio nichilista.
Nietzsche aveva torto: abolire il bene e il male non ha recato un’umanità viva e libera bensì l’esatto opposto: la poltiglia culturale, l’entropia morale, il servaggio abietto, la rinuncia.
Il potere teme un solo tipo d’uomo: colui che giudica il mondo secondo antichi sentimenti e da quelli si lascia comandare incurante dello scandalo di cui lo accuseranno inevitabilmente: d’essere un malvagio (nazista, razzista, omofobo e via cantilenando).
Il potere unico teme un solo tipo d’uomo: chi ricorda il passato e agisce di conseguenza.
Il potere unico ha terrore del passato, poiché nel passato, al di là della sofferenza, come per gli Alacaluf, aveva territorio la breve felicità e la bellezza. E per questo, poiché ne ha terrore, che deve continuamente ammonirci, sino allo sfinimento: vedete come eravamo malvagi! Ora non più! Vedete come il mondo era diviso e cattivo? Ora non più! Vedete quanta infelicità? Ora non più: crogiolatevi al sole del nostro Eldorado morale! E ricordatevi che alla cassa non si accettano contanti!
E il potere unico avrebbe terrore degli Italiani, se questi fossero ancora fedeli a sé stessi e alla propria storia e non se ne vergognassero per rispetto alla nuova etica globalista.
Ah, quale verità scrisse quel porco di Destouches:
“Le nazioni non moriranno perché i loro uomini di stato sono nullità, i loro governi troppo cupidi, troppo ubriachi o troppo pederasti … i loro ambasciatori troppo chiacchieroni o perché esse stesse … son diventate troppo arroganti, soprassaturate di ricchezze, schiacciate dalla loro industria, troppo lussuose o troppo agricole, troppo sempliciotte o troppo complicate. Tutto questo è senza rilievo, bazzecole passeggere, semplice cronaca della storia … una nazione si rialza … solo a una condizione, questa condizione assolutamente essenziale, mistica, quella di essere rimasta fedele attraverso vittorie e rovesci agli stessi gruppi, alla stessa etnia, allo stesso sangue …“
Capito? C’ho messo decenni per arrendermi alla sua verità.
Ho dovuto far violenza al buonismo che mi pioveva addosso da sempre, ogni maledetto giorno, per comprendere a pieno questo dato di fatto, inconfutabile.
Che dite, sono abbastanza malvagio così?
E, soprattutto: chi sarà il cantore dell’ultimo Italiano?
Ne avremo uno?
Ho dovuto far violenza al buonismo che mi pioveva addosso da sempre, ogni maledetto giorno, per comprendere a pieno questo dato di fatto, inconfutabile.
Che dite, sono abbastanza malvagio così?
E, soprattutto: chi sarà il cantore dell’ultimo Italiano?
Ne avremo uno?
Alceste
Fonte: http://pauperclass.myblog.it
7.03.2016
Nessun commento:
Posta un commento