lunedì 16 maggio 2016

GLOBALIZZAZIONE, SOVRANITÀ, CONFINI E FALSO INTERNAZIONALISMO di Jacques Sapir


















Un breve ma denso saggio sulla incompatibilità tra globalizzazione e democrazia, tra Unione europea e sovranità popolare, tra gli interessi del capitale multinazionale ed il bene comune.

«La questione della libertà dei popoli nel contesto di un’economia globalizzata si pone in molte occasioni. Le questioni che bisogna cercare di risolvere, dalle contrattazioni commerciali ai problemi di inquinamento, passando per le conseguenze delle catastrofi naturali superano, almeno in apparenza, i confini e la giurisdizione delle nazioni. Di qui nasce la domanda: le nazioni sono uno strumento o un ostacolo per risolvere questi problemi? La loro soluzione sarebbe più veloce ed efficace con l’emergere di un potere sovranazionale? Questa è la logica dei negoziati internazionali sui cosiddetti trattati di libero commercio, l’ultima incarnazione dei quali è il TAFTA (TTIP, ndt) [1] . Da questi trattati è sorta una “ideologia” del libero commercio moderno, che non regge a una seria analisi [2] . Tuttavia, questo rende obbligatorio definire che cosa sia una soluzione “efficace”. A meno che non si pretenda che queste soluzioni possano essere valutate solo in senso tecnico, che non sollevino conflitti, bisogna ammettere che il concetto di efficacia è in realtà politico. Tuttavia, il concetto di efficacia politica comporta implicare il concetto di legittimità, e quindi della libertà degli attori. E qui dobbiamo tornare alla creazione di quei contesti di espressione e organizzazione della democrazia che sono gli Stati.
Globalizzazione e democrazia
Una recente decisione della corte di Karlsruhe indica, per esempio, che la democrazia in Europa si esprime solo nel contesto degli Stati, e che non vi è alcun “popolo europeo”. La sentenza del 30 giugno 2009 stabilisce infatti che, a causa dei limiti del processo democratico in Europa, solo gli Stati nazionali sono depositari della legittimità democratica [3] . Il punto è importante perché erano in questione le regole fiscali che avrebbero dovuto essere adottato nel contesto dell’ euro. Siamo dunque in presenza dello stesso tipo di istituzione per definizione sovranazionale i cui metodi di gestione sembrano implicare una cessione di sovranità da parte degli Stati. Eppure la decisione della Corte costituzionale tedesca, in questa sentenza del 2009, è stata di stabilire che solo una decisione presa nel contesto di una Nazione era legittima, e quindi efficace.
Ora, non è senza significato, né senza conseguenze, che la Nazione e lo Stato si siano storicamente costruiti in Francia, ma anche altrove in Europa, sia nella lotta contro il feudalesimo locale sia contro le pretese sovranazionali (già allora…) del papato [4] . Ciò ci impone di pensare all’esistenza di queste due forme contemporaneamente. Ma la questione della nazione solleva anche quella del popolo. La formazione dello Stato come principio indipendente dalla proprietà del Principe si è formata attraverso un doppio movimento di formazione della Nazione, come entità politica, separata dalla proprietà del Principe [5] , e del Popolo come un attore collettivo [6]. La sovranità nazionale è, in ultima analisi, quella del popolo. Ma non possiamo pensare al “Popolo” senza pensare nello stesso movimento alla “Nazione”. E la sovranità si definisce correttamente la libertà del “Popolo”, nella cornice della “Nazione”. Questo è il motivo per cui la sovranità è essenziale all’esistenza della democrazia. La sovranità è una e non si può dividere, sia detto senza offesa per nessuno, anche se le sue applicazioni sono con ogni evidenza molteplici.

Ma se una comunità politica non è più padrona del suo destino, e questo è il caso quando si è di fronte a poteri sovranazionali, al suo interno non può più esserci democrazia. E quindi non può nemmeno essere determinato un “bene comune” [7] . Allora  ​​inevitabilmente si è costretti a cercare un altro cemento per questa comunità, ed è qui che troviamo la religione. Oggi si può constatare che l’attuale sviluppo del fondamentalismo religioso è in realtà la traduzione degli effetti di ciò che viene chiamato globalizzazione. Ma notare un fenomeno non significa affatto accettarlo, né tanto meno rallegrarsene. Tutti coloro che cantano le lodi delle presunte bellezze della globalizzazione, secondo loro dispensatrice di felicità, dovrebbero essere consapevoli che è proprio quest’ultima che produce, in modo naturale e permanente, l’aumento dei fondamentalismi religiosi.
Certo, ci sono nazioni sovrane che non sono democratiche, ma non ha potuto instaurarsi alcuna democrazia là dove si è privi di sovranità. Qualsiasi tentativo di creare uno spazio democratico crea in realtà uno spazio di sovranità. I due concetti sono indissolubilmente legati.
La fase attuale della globalizzazione
La confisca della libertà e della democrazia ormai è nei fatti. Prende la forma dei vari trattati che ci legano all’Unione europea e che sottomettono la rappresentanza democratica a un’autorità non eletta. Questi trattati sono stati “giustificati” con argomenti economici, che in gran parte sono stati smentiti dal tempo. Durante la preparazione del vertice dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) a Cancun nel 2003, si potevano leggere e ascoltare le stime dei guadagni che sarebbero dovuti derivare dalla liberalizzazione del commercio mondiale, pari a diverse centinaia di miliardi di dollari. I due principali modelli utilizzati per stimare questi “guadagni” erano Linkage, sviluppato all’interno della Banca Mondiale, e GTAP (Global Trade Analysis Project) della Purdue University [8] . In entrambi i modelli, era applicato ai dati reali il quadro teorico del modello di equilibrio generale [9] . Modelli di questo tipo sono ampiamente utilizzati dai ricercatori che vogliono stimare gli effetti della liberalizzazione del commercio internazionale. Tuttavia, i limiti e le carenze di questi modelli sono ben noti [10] . Il modello Linkage, utilizzato dalla Banca mondiale, aveva stimato un guadagno totale di 832 miliardi di dollari, di cui 539 solo per i paesi in via di sviluppo. Queste cifre giustificavano le politiche di liberalizzazione del commercio mondiale, rafforzavano la credibilità del WTO nel suo ruolo di “garante” della governance internazionale della globalizzazione e hanno accreditato l’idea che il libero scambio fosse una necessità per lo sviluppo di questi paesi. Ma l’euforia generata da queste statistiche e questi modelli non è durata molto. Nel caso di Linkage, i guadagni derivanti dalla liberalizzazione del commercio sono crollati da più di 800 miliardi di dollari a circa 290, di cui solo 90 per i paesi in via di sviluppo. E in effetti, se togliamo la Cina da questo gruppo di paesi, il guadagno diventa nullo. Una simile variazione nelle previsioni, in così poco tempo, lascia storditi  [11] .
Questa confisca è anche opera delle multinazionali, che impongono norme che consentono loro di dettare legge. Questo, infatti, è il vero argomento in gioco nell’accordo di libero scambio proposto tra il Nord America e l’Unione europea, TAFTA o TTIP [12] .
Una disgregazione mortale della sovranità
Questa disintegrazione della sovranità nazionale, questa dissoluzione cui assistiamo potrebbe anche avere come scopo quello di far nascere un’altra nazione. Se così fosse, si potrebbe capire, ma non necessariamente approvare un progetto che ignora la profondità storica necessaria a costruire le istituzioni e la loro legittimità [13] . Ma nemmeno questo è il caso.
Affermando perentoriamente che l’Unione europea è un progetto “sui generis” [14] , i leader europei si rendono esenti da qualsiasi controllo democratico, in particolare nel campo della negoziazione di nuovi trattati, come il TAFTA e prima di lui il CETA (Accordo economico commerciale globale tra UE e Canada, ndt) e vogliono cancellare la possibilità che questi accordi siano contestati in modo legittimo. In questo modo seppelliscono il principio di sovranità nazionale, ma senza sostituirlo con un altro principio.
Questa volontà feroce di eliminare dal campo della politica il principio di sovranità conduce alla volontà di far scomparire anche il principio della democrazia. Ma in questo modo si distrugge anche un legame sociale della più grande importanza. Non si deve quindi essere sorpresi che la società scivoli verso l’anomia e la guerra di “tutti contro tutti”. Non è quindi sorprendente che ci si svegli, come è successo nell’estate del 2014, con frammenti della nostra società che non si pensano più in primo luogo francesi, ma musulmani o ebrei,  “neri” o “bianchi”: in breve, è l’ascesa del comunitarismo che oggi corrode la nostra “convivenza”. Ma c’è in particolare una dimensione profondamente francese che è un misto di odio per la Nazione, ritorno del senso di colpa, e di quel passato rancido che ci arriva dal 1940. Lasciamo perdere la Francia, dicono queste grandi menti, e andiamo a perderci nella massa amorfa che è oggi l’Unione europea, anche a costo di abbandonare la democrazia e la sovranità.

Lo Stato e le grandi imprese
Ma lo Stato non è forse oggi contestato anche dalle grandi imprese, quelle che gli anglosassoni chiamano “corporation”? Se anche si potesse arrivare a un accordo sull’argomento dello Stato, non sarebbe comunque messo in discussione dallo sviluppo delle società multinazionali e dal loro potere materiale e finanziario, che spesso è della stessa dimensione di quello di numerosi Stati?
William Dugger [15] critica la definizione classica dello stato di Max Weber, una comunità che ha il monopolio legittimo della violenza, come troppo limitata [16]. Se le funzioni dello Stato sono definire i diritti, regolare i conflitti e monitorare le prestazioni, queste funzioni sono anche quelle delle grandi aziende. E vediamo che in molti accordi internazionali, già firmati o da firmare, come il TTIP, il diritto privato rischia di avere la meglio sul diritto pubblico.
La posizione di Dugger è interessante, ma costituisce allo stesso tempo un progresso e un regresso. Il progresso è che la definizione delle funzioni istituzionali dello Stato aiuta a comprendere come il suo campo d’azione possa essere eroso, soggetto alla concorrenza di altre organizzazioni di grandi dimensioni. Allo stesso tempo, eliminando il concetto di monopolio della violenza, Dugger rimuove l’aspetto normativo di questa concorrenza. Fino a che un’organizzazione detiene il monopolio dell’uso della forza, e può quindi utilizzarla contro altre organizzazioni, anche se queste hanno obiettivi della medesima natura, è chiaro che si stabilisce una gerarchia, e che si mettono in atto legami di subordinazione. Se però questo monopolio è eroso, questa gerarchia entra in crisi. La domanda allora è se questo monopolio è eroso su tutto il territorio che lo Stato afferma di controllare, o solo su una parte di esso.
In effetti, il ragionamento è limitato perché è organizzato attorno a un confronto tra lo Stato e un’impresa. Tuttavia, l’argomento ha valore descrittivo innegabile. Bisogna anche aggiungere che non è nuovo, e anche l’assimilazione dello Stato a un’impresa, anche se si tratta di un’impresa il cui scopo è quello di mantenere il suo potere[17] . Le condizioni di relativa debolezza dello Stato di fronte a un’azienda sono ben descritte. Esse contengono implicitamente un argomento a favore di un settore di produzione statale, anche limitato: per offrire allo Stato un’alternativa di fronte alle pretese dell’impresa giocando sul suo stesso terreno.
Sovranità e diritto internazionale
Il Diritto internazionale coordina il Diritto di ciascuno Stato, si tratta di un Diritto di coordinamento [18] . Questa è la logica sviluppato da Simone Goyard-Fabre [19] . Ma questa logica oggi è messa in discussione con il pretesto che oggi saremmo in misura sempre maggiore di fronte a problemi globali, come il riscaldamento del clima.
Si ipotizza dunque spesso che i trattati internazionali oggi limitino la sovranità degli Stati. I trattati sono infatti percepiti come obblighi assoluti in base al principio pacta sunt servanda [20] . Ma questo principio può dar luogo a due interpretazioni. Una è che questi trattati non sono altro che una implementazione di un altro principio, quello della razionalità strumentale. Questo implica di supporre una ragione immanente e una completezza dei contratti che costituiscono i trattati, due ipotesi delle quali è facile dimostrare la falsità. La seconda è che si può anche considerare che questo principio significa che la capacità materiale dei governi di prendere decisioni presupponga che tutte le decisioni precedenti non sono tutte le volte e contemporaneamente rimesse in discussione. Questo argomento utilizza una visione realistica delle capacità cognitive degli agenti. Ma dire che è auspicabile che un trattato non sia immediatamente contestato, non significa che non possa mai essere contestato. In certi momenti è opportuno poter contare sulla stabilità dei contesti entro cui si organizzano i trattati, ma questo non stabilisce per nulla un loro potere decisionale superiore a quello delle parti firmatarie, né quindi sulla loro sovranità. Per questo, d’altra parte, il diritto internazionale è necessariamente un diritto di coordinamento, e non un diritto di subordinazione [21] . L’unanimità, e non la maggioranza, ne è la regola. La comunità politica è quella degli Stati partecipanti. Un trattato è vincolante solo per i suoi firmatari, e ogni firmatario gode di un uguale diritto quando si impegna con la firma, indipendentemente dalle sue dimensioni, dalla ricchezza, o dal numero dei suoi abitanti [22] . Voler sostituire il diritto di subordinazione al diritto di coordinamento ha un solo significato: la creazione di un diritto che sarebbe separato dal principio di sovranità e non avrebbe alcuna altra base per la sua esistenza che se stesso.
Infine, l’approccio che pretende di basare sulla dimensione globale di alcuni problemi la messa in discussione della sovranità degli Stati è stato criticato a suo tempo da Simone Goyard-Fabre: ”  Che l’esercizio della sovranità non possa essere effettuato se non attraverso organismi differenziati, dotati di competenze specifiche e che operano indipendentemente gli uni dagli altri, non implica nulla sulla natura del potere sovrano dello Stato. Il pluralismo organico (…) non divide l’essenza o la forma dello Stato; la sovranità è una e indivisibile ”  [23] . L’argomento che vuole basarsi sui limiti pratici della sovranità per limitarla anche come principio è, nella sostanza, di una grande debolezza. Gli Stati non hanno mai avuto la pretesa di controllare materialmente tutto, neanche nel loro territorio. Il despota più potente e più assoluto è impotente di fronte a un uragano o una siccità. Non dobbiamo confondere i limiti legati al campo della natura con la questione dei limiti della competenza del Sovrano.

Non ci può essere alcun diritto di subordinazione, a meno che gli Stati firmatari non si fondano in una sola comunità sociale e politica. Questo è il caso delle federazioni. Al di fuori di questo processo, voler sostituire il diritto di subordinazione al coordinamento del diritto ha, ancora, un solo significato: la creazione di una legge che sarebbe separato dal principio di sovranità e non avrebbe alcuna base per la sua stessa esistenza che se stessa.
Stati, confini e ordine democratico
Bisogna dunque pensare all’esistenza di un ordine democratico nell’era della globalizzazione. L’ordine democratico richiede confini, per essere in grado di definire chi è responsabile di che cosa, ma anche un concetto di appartenenza che sia territoriale (jus soli). L’assenza di confini, l’indeterminatezza della comunità di riferimento, separano l’esercizio della responsabilità dal suo controllo.
Cancellare i confini è una prospettiva allettante, che ha l’apparenza della generosità. Vi si ritrovano bene sia i più accaniti difensori della globalizzazione dei mercati sia i loro detrattori più feroci, che interpretano in modo radicale, e secondo noi improprio, il concetto di internazionalismo. L’idea dei confini per loro è un concetto a priori aberrante. I confini significano la separazione di esseri che la loro natura intrinseca dovrebbe unire.
Per i primi, l’esistenza di confini, e quindi di leggi diverse, tariffe doganali e altri divieti è un attacco intollerabile alla “libertà di commercio”. Ma questa affermazione, sia pensando al commercio sia in una visione deviata dell’internazionalismo non significa altro che sostenere che la natura dell’uomo esiste a prescindere da qualsiasi rapporto con una organizzazione sociale. Ora, abbiamo visto che una tale posizione è in realtà insostenibile, a meno di non proiettarci nuovamente nella metafisica e in ragionamenti non realistici.
Quindi accettare che la dimensione sociale è la più importante aiuta a comprendere che negare i confini significa negare ciò che rende possibile la democrazia, ovvero l’esistenza di uno spazio politico in cui siamo in grado di vigilare sia sul controllo sia sulla responsabilità. Quest’ultima, infatti, non può accontentarsi, come sostiene Jurgen Habermas, di essere semplicemente deliberativa [24] . Ci sono certamente molti punti positivi in questa visione. Tuttavia, essa contiene anche dimensioni ideali e irrealistiche, che rendono questa visione della democrazia vulnerabile alle critiche [25] . Ricordiamo che il potere di decidere deve essere governato da norme di uguaglianza e di simmetria, che ciascuno ha il diritto di mettere in discussione il programma, e che non ci sono regole che limitano il programma né l’identità dei partecipanti, purché ogni persona esclusa possa dimostrare in modo giustificato che è coinvolta dalle norme che sono in discussione. L’esistenza di queste norme implica la realizzazione di uno Stato e definisce uno spazio. È solo a queste condizioni che può esistere la democrazia.
Note
[1] Cherenti R. e B. Poncelet Le Grand marché transatlantique : Les multinationales contre la démocratie, Editore Bruno Leprince, maggio 2011.
[2] Bairoch P., R. Kozul-Wright, « Globalization Myths: Some Historical Reflections on Integration, Industrialization and Growth in the World Economy », Discussion Paper, n° 113, Ginevra, UNCTAD-OSG, marzo 1996
[3] Vedi H. Haenel, « Rapport d’information », n° 119, Sénat, session ordinaire 2009-2010, Parigi, 2009.
[4] Carré de Malberg R., Contribution à la Théorie Générale de l’État, Éditions du CNRS, Parigi, 1962 (prima edizione, Parigi, 1920-1922), 2 volumi. T. 1, pp. 75-76
[5] Vedi, Flori J., Philippe Auguste – La naissance de l’État monarchique, éditions Taillandier, Paris, 2002 ; Baldwin J.W., (trad. Béatrice Bonne, pref. Jacques Le Goff), e Favier J., Les légistes et le gouvernement de Philippe le Bel », inJournal des savants, no 2, 1969, p. 92-108. Idem, Un Conseiller de Philippe le Bel : Enguerran de Marigny, Parigi, Presses universitaires de France, (Mémoires et documents publiés par la Société de l’École des chartes), 1963
[6] Bensaïd D., Jeanne de guerre lasse, Parigi, Gallimard, « Au vif du sujet », 1991.
[7] Bodin J., Les Six Livres de la République, (1575), Librairie générale française, Paris, Le livre de poche, LP17, n° 4619. Classiques de la philosophie, 1993.
[8] Vedi Hertel T., D. Hummels, M. Ivanic, R. Keeney, « How Confident Can We Be in CGE-Based Assessments of Free-Trade Agreements? », GTAP Working Paper, n° 26, West Lafayette (Ind.), Purdue University, 2004.
[9] Taylor L. e R. von Arnim, « Modelling the Impact of Trade Liberalisation: A Critique of Computable General Equilibrium Models », Oxfam, Oxford, Oxford University Press, 2006.
[10] Vedi F. Ackerman, K. Gallagher, « Computable Abstraction: General Equilibrium Models of Trade and Environment » in F. Ackerman, A. Nadal (dir.),The Flawed Foundations of General Equilibrium: Critical Essays on Economic Theory, New York/Londra, Routledge, 2004, p. 168-180. Per una analisi critica più generale della teoria dell’equilibrio generale, vedi J. Sapir, Les Trous noirs de la science économique, Parigi, Albin Michel, 2000.
[11] Vedi F. Ackerman, « An Offer You Can’t Refuse: Free Trade, Globalization and the Search for Alternatives » in F. Ackerman, A. Nadal (dir.), The Flawed Foundations of General Equilibriumop. cit., p. 149-167.
[12] Cherenti R. e B. Poncelet Le Grand marché transatlantique : Les multinationales contre la démocratie,. Op.cit..
[13] Bentley A., The Process of Government (1908), Evanston, Principia Press,1949.
[14] Comme Manuel Barroso, Barroso J-M., Speech by President Barroso: « Global Europe, from the Atlantic to the Pacific », Speech 14/352, discorso tenuto all’Università di Stanford, 1° maggio 2014
[15] Dugger, W.M., “An evolutionary theory of the state and the market”, in W.M. Dugger e W.T. Waller Jr., (eds), The Stratified state , M.E. Sharpe, New York, 1992
[16] Dugger W.M., “Transaction cost Economics and the State”, in C. Pitelis, (ed.), Transaction Costs, Markets and Hierarchies, Basil Blackwell, Oxford, 1993, pp. 188-216. Vedi anche, W.M. Dugger, “An evolutionary theory of the state and the market”, op.cit..
[17] Vedi su questo argomento Hintze, O., Féodalité, Capitalisme et État moderne, ed. H. Bruhns, trad. F. Laroche, Paris, MSH, 1991 e soprattutto Weber, M., Économie et société, 2 vol., Paris, Pocket (1992 per l’edizione francese, 1922 per l’edizione originale).
[18] Dupuy R.J., Le Droit International, PUF, Paris, 1963
[19] Goyard-Fabre S., « Y-a-t-il une crise de la souveraineté? », in Revue Internationale de Philosophie, Vol. 45, n°4/1991, pp. 459-498.
[20] Idem, p. 485.
[21] Dupuy R.J., Le Droit International, PUF, Paris, 1963.
[22] Punto sottolineato dal XVIII secolo da De Vattel, E., Le droit des gens, Londra, s.n., 1758, ed. del 1835. Bisogna sottolineare qui che l’espressione « droit des gens » sottolinea in realtà l’organizzazione delle relazioni tra Nazioni.
[23] S. Goyard-Fabre, « Y-a-t-il une crise de la souveraineté? », op.cit., p. 480-1.
[24] Habermas, J., Theory of Communicative Action Volume One: Reason and the Rationalization of Society (Book). Boston, Mass.: Beacon Press, 1984.
[25] Per una esposizione delle posizioni di Habermas, S. Benhabib, « Deliberative Rationality and Models of Democratic Legitimacy », in Constellations, vol.I, n°1/avril 1994.
* Fonte: Voci dall'Estero

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