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martedì 16 agosto 2016

LA FINE DELLO STATO ISLAMICO? di Moreno Pasquineli




Per gli stolti le pagine che seguono — poiché non sentiamo alcuna solidarietà con il mostro imperialista ed i suoi ascari, poiché non ci facciamo intruppare nella isterica campagna anti-musulmana —, sembreranno indulgenti verso lo Stato islamico. Nient’affatto. La nostra distanza dai salafiti combattenti è incolmabile, sul piano etico come su quello politico e strategico. Vale oggi come ieri il severissimo giudizio che demmo molti anni addietro delle pratiche e della strategia dei ribelli takfiri in Iraq guidati da al-Zarkawi e sulla cui scia rinascerà appunto lo Stato Islamico.
Dedico queste pagine alla memoria di Jabbar al-Kubaysi.


* * * 
«La scintilla è partita qui, in Iraq, e il suo calore aumenterà, a Dio piacendo, fino a quando brucerà le armate crociate a Dabiq»
Abu Musab al-Zarkawi

Di Ramadi, capitale della indomita provincia sunnita di al-Anbar, se ne annunciò la caduta, dopo mesi di aspri combattimenti, nel dicembre 2015. Notizia che poi si rivelerà un clamoroso falso, visto che la città sarebbe stata “liberata” solo nel febbraio. E’ stato il primo, gravissimo rovescio delle milizie salafite combattenti dello Stato Islamico, quello che oggi sembra abbia posto fine alla sua folgorante avanzata, prima in Iraq e poi in Siria.

Ma chi ha “liberato” Ramadi? Sul terreno, la carne da macello, ce l’hanno messa le milizie shiite irachene (le cosiddette Forze di Mobilitazione Popolare), fiancheggiate da brigate iraniane. Gli anglo-americani hanno provveduto non solo a tele-comandare l’offensiva grazie ai loro occhi elettronici ma, dal cielo, a spianargli la strada con incessanti bombardamenti.

Ora Ramadi resta una città fantasma. La gran parte dei suoi abitanti, per sfuggire alle rappresaglie shiite, sono scappati a Nord, verso Mosul, alcuni addirittura cercando rifugio nelle zone controllate dai curdi.

Nell’aprile 2016 si annunciò la “liberazione” di Tikrit, città natale di Saddam Hussein, nella provincia di Salahaddin. Medesima la coalizione dei vincitori. Stessa la sorte degli abitanti, la gran parte sfollati per scampare alle rappresaglie delle milizie shiite.

Fallujah, città martire della lotta antimperialista, simbolo e indomita avamposto verso Baghdad dello Stato Islamico, è stata dichiarata “liberata”, leggi ridotta nuovamente in macerie, nel giugno 2016. Sapremo solo dopo che, ben lungi che darsi alla fuga disordinata, i guerriglieri dello Stato islamico hanno animato sacche di accanita resistenza accanita per almeno due mesi.

Anche qui, mentre sul terreno combattevano milizie shiite sostenute da brigate iraniane, dal cielo coordinavano e martellavano al loro fianco i bombardieri e i droni anglo-americani. Stessa la sorte per la gran parte degli abitanti sunniti: dopo aver patito per mesi sotto le bombe si sono dati alla fuga per timore delle rappresaglie alidi e “safavidi”.

In altri tempi si sarebbe gridato alla “pulizia etnica”. Oggi non è più in uso, tutto fa brodo nella guerra totale per annientare lo Stato islamico, e fanno brodo, anzitutto, la censura e l’omertà sulla sorte delle decine di migliaia di civili ammazzati, delle miglia a migliaia feriti, delle centinaia di migliaia costretti all’esodo. Se di persecuzioni è consentito parlare è solo di quelle delle sette yazide, druse, alawite o cristiane da parte dei “terroristi”.

Ora non resta ai “vincitori”, in Iraq, che puntare al bersaglio grosso, la metropoli di Mosul, il più grande bastione iracheno in mano ai takfiri dello Stato Islamico.

Il Primo ministro iracheno Haidar al-Abadi, da Fallujah, aveva solennemente dichiarato che Mosul sarebbe stata presa entro quest’anno. Fonti attendibili sostengono invece che l’avanzata dei “liberatori” procede molto a rilento. Gli americani hanno suggerito che prima occorrerà conquistare Qayyarah, cittadina irachena situata a circa 60 chilometri a sud di Mosul, ancora in mano allo Stato Islamico, importante, dicono dal Pentagono, perché lì c’è un aeroporto indispensabile ai cacciabombardieri americani. Per di più Qayyarah si trova sulle sponde del fiume Tigri, dove dall’altra parte della sponda sono ammassate consistenti forze peshmerga curde fedeli a Barzani e Talabani, il cui supporto è prezioso.

L’offensiva contro lo Stato Islamico è a tutto campo, si dispiega anche in Siria. Qui le forze takfire debbono tenere testa ad una coalizione ancor più ampia e temibile. Dal cielo piovono bombe americane, francesi, inglesi e russe. Mentre sul terreno ancor più numerosi sono i nemici: non solo le milizie fedeli ad Assad, sostenute dai libanesi di Hezbollah e dai combattenti iraniani. Ci sono il grosso delle forze che animano la guerriglia contro il regime di Assad: le milizie di Jabhat al-Nusra (ora Jabhat Fatah al-Sham), quelle di Ahrar al-Sham, quelle dei filo americani del Free Syrian Army. Nella “Santa alleanza” anti-Stato Islamico non potevano mancare i curdi filo-Pkk, tra cui le Unità di Difesa del Popolo Curdo (YPG).

Ed è proprio col decisivo contributo delle YPG (incorporate nel blocco che va sotto il nome di Forze Democratiche Siriane - FDS) che due giorni fa, strombazzata in pompa magna dalla fanfara dei media occidentali, è avvenuta la “liberazione” della cittadina siriana di Manbij. Testa di ponte, secondo i conquistatori per espugnare la roccaforte strategica nemica di Raqqa. Non si sognano nemmeno, i comandanti curdi, di negare che questa conquista non sarebbe stata possibile senza il contributo decisivo di almeno quattro potenze occidentali: gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia e la Germania.

Nel caso di Manbij gli imperialisti non sono intervenuti solo dall’aria, fondamentale è stato il ruolo di centinaia di mercenari raccapezzati dalla CIA nonché di truppe scelte yankee e inglesi, che hanno affiancato nell’offensiva di terra i miliziani delle YPG. Un fatto, questo — cioè che le milizie YPG hanno agito come truppe cammellate degli americani e dei loro alleati — inoppugnabile, su cui una certa sinistra radicale europea, pro-curda a prescindere, deliberatamente tace, tanto per proteggere il mito di una guerriglia curda immacolata.

En passant: se si vuole capire il senso e la portata della riappacificazione tra Erdogan e Putin (e la contestuale normalizzazione dei rapporti con Israele), da qui, da quel che è accaduto al Nord est della Siria, da Kobane a Manbij, occorre partire. Erdogan non solo contesta alle potenze occidentali di aver sostenuto il tentativo di colpo di stato per defenestrarlo. Teme che queste stiano avallando la costituzione di una regione autonoma curda in Siria, che finirebbe per unirsi al vero e proprio Stato curdo nel nord dell’Iraq.
La qual cosa finirebbe per dare una spinta alla minoranza curda in Turchia, minacciando così l’unità stessa del paese. Qui viene alla luce la sconfitta strategica di Erdogan. Ha soffiato sul fuoco della guerra civile siriana, immaginando di fare della Siria la testa di ponte della sua egemonia sul Medio oriente — la qual cosa è osteggiata non solo dalle monarchie arabe e dall’Iran, ma pure dalle potenze imperialiste occidentali — e si ritrova ora con la minaccia di una guerra civile in casa. Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi.

Tornando allo Stato Islamico, l’ultimissima vittoria annunciata dalla Santa Alleanza, è quella di Sirte, roccaforte dello Stato Islamico in Libia e città natale di Gheddafi. Anche qui, stessa musica, stesso spartito. A causa delle umilianti sberle subite dalle sgangherate milizie tribali fedeli al governo fantoccio di al-Sarraj sono dovute pesantemente intervenire le potenze occidentali, Usa in testa. Prima fase: bombardamenti dall’aria e supervisione elettronica dell’assedio. Seconda fase: offensiva con truppe di terra, compresi mercenari inglesi, americani ed italiani armati di tutto punto.
Ma la gatta frettolosa, si sa, fa i figli ciechi. Oggi, 14 agosto, veniamo a sapere che a Sirte ancora si combatte e che alcuni quartieri sono ancora in mano ai takfiri.

La morale della favola, che i media occidentali di ogni colore politico stanno diffondendo e inculcando a tutto spiano, è che la fine dello Stato Islamico è oramai prossima. I pasciuti cittadini occidentali, europei anzitutto, possono dormire sonni tranquilli: il loro gioioso stile di vita non sarà minacciato. Non entrerà in vigore la sharia. Le donne non dovranno portare il burqa e potranno mostrare come vogliono le loro fattezze. I giovani potranno divertirsi come meglio credono fino a sballarsi, o rincitrullendosi cacciando pokemom. Tutti potranno continuare a praticare i loro sport preferiti e doparsi a gogò. I sudditi potranno continuare a farsi rimbecillire dalle televisioni e, quel che più conta, potranno ogni tanto recarsi alle urne per eleggere chi li fregherà meglio. Hurrà: la civiltà sta vincendo sulla barbarie.

Peccato che questa ottimistica narrazione imperiale sia solo una fiaba consolante.

Non fosse per la stupida boria occidentalista, sarebbe superfluo sottolineare che l’insorgenza in seno all’Islam di frazioni intransigenti e takfire, non è affatto un accidente. L’emersione del cosiddetto “fondamentalismo islamico” — piaccia o non
Atrocità takfire...
piaccia ai pontefici del “progresso”, ovvero al mito della superiorità dell’Occidente, quindi del suo destino a colonizzare il mondo —, è solo una spia della rinascita di una civiltà di antiche e inestirpabili radici, dove la religione, prima ancora che mistica trascendenza verso il divino, è etica, diritto, prassi politica. Quindi identità collettiva, sapere di essere una comunità, convinzione di avere un destino, certo divinamente prescritto ciò che, a maggior ragione, implica combattere senza sosta per esso.

Questa rinascita non è un fatto passeggero, a maggior ragione perché incontra l’Occidente nel suo massimo punto espansivo, che quindi precede il proprio inesorabile declino. Siamo davanti ad un ridestarsi di portata storica, che quindi si dispiega sui tempi lunghi, davanti al quale, l’Occidente, se non si spoglia delle sue smanie imperialiste e colonialiste, è destinato a soccombere, non per venire “islamizzato”, come certi corifei imperiali vaneggiano, ma per implodere sotto il peso della sua putredine.

La minaccia della “islamizzazione” dell’Occidente, non è solo un icastico spauracchio ideologico per strappare la devozione del popolo bue e intrupparlo, come ai tempi delle crociate, nella guerra di sterminio contro lo Stato islamico — ovvero per spazzare via un ostacolo all’imperialistico dominio mondiale. E’ molto di più. E’ un furbesco tentativo di rovesciare la realtà storica, di capovolgerla, ovvero di occultare la secolare opposta tendenza, quella alla totalitaria occidentalizzazione del mondo, di quello islamico in primis, sulla base della pretesa, di matrice religiosa, che l’Occidente cristiano sia il faro della civilizzazione mondiale e destinato a sussumere ogni altro da sé.

E’ infine un’altra cosa questo spauracchio della “islamizzazione”. E’ l’Occidente colonialista che mentre osserva i propri nemici e la loro universalistica e tenace volontà di potenza, in verità è esso stesso che si guarda narcisisticamente allo specchio, ma in questo suo rimirarsi, vedendo la propria nichilistica pulsione di morte, vorrebbe riconquistare anch’esso, proprio come i suoi nemici, le sue più ataviche radici sprituali: non solo volontà di potenza contro volontà di potenza, bensì guerra santa contro guerra santa, Dio contro Dio.

Conobbe già l’Occidente cristiano, dopo il crollo della civilizzazione greco-romana, l’ingresso in un’epoca di barbarie. Impiegò secoli per riprendersi, ma nel frattempo il mondo andò avanti, e se andò avanti fu anche grazie all’Islam.

Che la “Santa alleanza” non canti dunque vittoria ove riesca (e ci riuscirà visto il fideismo cieco e i clamorosi errori politici dello Stato Islamico) a sterminare i seguaci del Califfo al-Baghdadi. Egli è succeduto ad al-Zarkawi, come questo ha raccolto il testimone di Bin Laden, come questo a sua volta seguì le orme di al-Qutb.

Essi tutti hanno a loro volta ripreso l’eredità di quelle correnti salafite intransigenti e guerriere come i kharijiti o gli azraqiti dei primi secoli dell’islam, che a più riprese si ribellarono armi in pugno in nome del “vero e puro Islam”, e per questo vennero annientati dai diversi califfi. Non tutti i musulmani sono salafiti o takfiri, la maggioranza di essi sono anzi quietisti, ma tutti i salafiti ed i takfiri sono musulmani. In essi, piaccia o non piaccia alle scuole maggioritarie, siano esse sunnite o shiite, arde la fiaccola della fierezza islamica, la sete di vendetta dopo secoli di umiliazione

Questa fiaccola non verrà spenta, malgrado lo Stato Islamico sarà smembrato e fatto a pezzi. Per esso non solo il martirio in combattimento, dunque il sacrificio di sé, è la via della salvezza eterna. Ma non c’è solo questo militarismo fatalista. Lo Stato Islamico ha innestato nella sua narrazione, un elemento che pareva estraneo alla visione islamica, quello millenaristico ed escatologico proprio di certe sette ebraico-cristiane. Non a caso il nome dato dallo Stato Islamico al proprio organo di propaganda, è Dabiq, luogo non a caso situato nel Nord est della Siria dove un’improbabile profezia islamica vuole avverrà lo scontro apocalittico e finale tra i musulmani ed i Rum, i cristiani. L’equivalente dell’Armageddon dei cristiano-sionisti.

Escludiamo che la battaglia finale di Dabiq avvenga. Quello che invece non escludiamo, quello di cui siamo anzi certi, è che il salafismo combattente, ancorché nuovamente sconfitto, come l’araba fenice, risorgerà dalla sue ceneri. Sempre risorgerà, fino a quando l’imperialismo dominerà il mondo, fino a quando miliardi di umani saranno soggiogati e umiliati, fino a quando vivrà l’anelito, sia esso sacro o profano, alla giustizia sociale. Fino a quando l’Occidente non farà orrore a se stesso.

http://sollevazione.blogspot.it/2016/08/la-fine-dello-stato-islamico-di-moreno.html

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