martedì 23 giugno 2015

I consumatori sono cose


JPMorgan
JPMorganIl filosofo Charles S. Pierce della scuola pragmatista definiva la «cosa» come qualunque oggetto di cui possiamo parlare e pensare. Siamo noi uomini, armati di coscienza, che diamo esistenze alle cose, pensandole e parlandone.
Pierce si riallacciava a Cartesio, per il quale gli essere pensanti sono i soggetti attivi, mentre gli altri esseri, cioè ciò che i soggetti pensano, sono le cose, oggetti, che palesano, in quanto “pensati” dal soggetto attivo, la loro passività. “Gli oggetti, le «cose», sono senza vita, inattivi, acquiescenti, apatici, tolleranti, compiacenti, docili, passivi e pronti a subire: sono collocati stabilmente sul lato ricevente dell’azione.”
Immanuel Kant avrebbe fatto scivolare il lato «attivo» della relazione soggetto-oggetto completamente sul lato del soggetto; le cose sono oggetti dell’analisi e della manipolazione del soggetto, ed è al soggetto che essi devono il loro significato e status. Bertrand Russell li avrebbe chiamati «fatti» («cosa fatta»,dal latino facere). (…)
Il divario fra soggetto e oggetto, l’uomo pensante e la cosa, è a tutti gli effetti incolmabile.
L’idea di «incolmabilità», di irreparabile opposizione degli status e di inguaribile asimmetria
della loro relazione, è un riflesso dell’esperienza comune del potere-in-azione: cioè di superiorità e subordinazione, comando e obbedienza, libertà di agire e necessità di sottomissione… La descrizione della relazione soggetto-oggetto è sorprendentemente simile a quella del «potere», «governo», o «dominio»: i modi in cui le cose sono definite, classificate, valutate e trattate sono determinati da quelle che il soggetto ritiene siano le sue esigenze, e sono modulati secondo la convenienza del soggetto. Si è inclini a concludere che le cose, naturalmente passive, intorpidite e mute, siano lì (quali che possano essere il momento e il luogo di quel «lì») per servire i soggetti radicalmente attivi, percettivi e giudicanti; le cose sono «cose» fin tanto che sono così. Non sono «cose» in virtù di certe loro intrinseche qualità di «cose», ma a causa della relazione con cui sono legate ai soggetti. (Zygmunt Bauman, «“La ricchezza di pochi avvantaggia tutti” Falso!», Editori Laterza)
Il tema cruciale dell’attuale società riguarda proprio la divisione soggetto/oggetto, poiché il Globalismo Capitalista attuale, Neoclassico e Neoliberista – in ultima istanza Neofeudale – considera gli esseri umani come oggetti, strumenti (né più e né meno di Aristotele quando affermava che gli schiavi erano “strumenti parlanti”) soprattutto se posti alla base della piramide sociale al cui vertice assurge l’élite finanziaria. In poche parole, l’operaio, l’impiegato, il commerciante sull’orlo del fallimento, il disoccupato, non sono altro che «cose» che “meritano” il trattamento riservato agli oggetti.
Perché meritano questo trattamento? Perché la logica sempre più distorta che tende ad accomunare il ricco con il virtuoso e il povero o il debitore con il peccatore è accettata e normalizzata persino da coloro i quali subiscono tale logica aberrante.
Il debito pubblico, inevitabile se si desidera che lo Stato fornisca ai suoi cittadini servizi pubblici e welfare di livello dignitoso, è diventato, per la casta europea formata da abomini dalle infime vibrazioni, un peccato mortale.
Con il pretesto che le “giovani generazioni italiane non potranno sostenere il peso di un debito pari a oltre il 130%”, chiedono riforme che uccideranno vita e futuro di tutte le generazioni, dai neonati ai nonagenari.
Gli avvoltoi del rigore a tutti i costi, ideatori dell’ossimoro “austerità espansiva”, abusando di un’informazione-propaganda drogata e in malafede, hanno convinto tutti, compresi i ceti più deboli, che il debito pubblico va progressivamente ridotto, senza spiegare che ciò porterà alla miseria il 90% della popolazione della parte più bassa della piramide sociale, arricchendo ulteriormente il rimanente 10%, formato da ricchi rentiers, parassiti della casta e banchieri.
Dovrebbero, gli avvoltoi spiegare perché Obama e Abe non applicheranno mai, nei loro Paesi Sovrani,  forme analoghe al  fiscal compact UE, come non si sognerebbero mai di applicare politiche di sterminio ai danni delle loro stesse popolazioni.
Attualmente è proprio l’Eurozona a rappresentare il massimo esempio di società mercantile degenerata e amorale, senza né spirito, né anima, dove comunità reali,  antiche aggregazioni religiose o sociali e solidali, vengono spazzate dai simulacri virtuali dei social network, ottimi nel solleticare la vanità e l’egocentrismo di individui vacui, deboli e sempre più isolati, atomizzati, e ormai del tutto incapaci di avere una voce comune all’infuori dell’enorme “rumore di fondo” causato da miliardi di evanescenti sms, post e tweet.
Passivi consumatori-adoratori di “cose” sono essi stessi, ogni giorno di più, “cose”, trattati come “cose” con la loro stessa – passiva – acquiescenza.
Molecole passive, dotate di mero moto browniano, all’interno della “Società liquida”.
Questa tendenza a trasferire il modello in maniera sviata e illegittima, che sfida la logica e la morale, si è (…) diffusa nella nostra società liquido-moderna, individualistica, di consumatori, e continua a mostrare tutti i segni di una forza aggregante.
Una parte grande, forse principale, di responsabilità di una simile svolta nella situazione attuale va assegnata alla spettacolare avanzata della cultura consumistica, che pone la totalità del mondo abitato come un enorme contenitore, zeppo di nient’altro che oggetti di potenziale consumo, giustificando così e promuovendo la percezione, la stima e la valutazione di ogni singola entità mondiale secondo standard fissati nelle pratiche dei mercati di consumo. (Zygmunt Bauman, «“La ricchezza di pochi avvantaggia tutti” Falso!», Editori Laterza)
Quello della società liquida, cangiante e volubile ai ritmi pulsanti e istantanei dell’informatica, senza auto-coscienza, è un concetto che affiora spesso nelle pagine dei giornali, mutuato in maniera, però, superficiale, non assumendo la valenza – giustamente – negativa che traspare nelle opere del filosofo Zygmunt Bauman.
Lo stesso Bauman spiega i motivi per cui l’individualismo iper-liberista viene pervicacemente perseguito anche da coloro i quali avrebbero tutto l’interesse a vivere in una comunità più solidale e meno aggressivo-competitiva qual è l’attuale Mondo Globale.
«La comunità ci manca» perché ci manca la sicurezza, elemento fondamentale per una vita felice, ma che il mondo di oggi è sempre meno in grado di offrirci e sempre più riluttante a promettere. «Ma la comunità resta pervicacemente assente», ci sfugge costantemente di mano o continua a disintegrarsi, perché la direzione in cui questo mondo ci sospinge nel tentativo di realizzare il nostro sogno di una vita sicura non ci avvicina affatto a tale meta; anziché mitigarsi, la nostra insicurezza aumenta di giorno in giorno, e così continuiamo a sognare, a tentare e a fallire.
L’insicurezza attanaglia “tutti noi”, immersi come siamo in un impalpabile e imprevedibile mondo fatto di liberalizzazione, flessibilità, competitività ed endemica incertezza, ma ciascuno di noi consuma la propria ansia “da solo”, vivendola come un problema individuale, il risultato di fallimenti personali e una sfida alle doti e capacità individuali. Siamo indotti a cercare, come Ulrich Beck ha causticamente osservato, soluzioni “personali” a contraddizioni “sistemiche”; cerchiamo la salvezza “individuale” da problemi “comuni”. Tale strategia ha ben poche speranze di sortire gli effetti desiderati, dal momento che non intacca le radici stesse dell’insicurezza; inoltre, è precisamente questo ripiegare sulle nostre risorse e capacità individuali che alimenta nel mondo quell’insicurezza che tentiamo di rifuggire.
Capita sovente che, seduti in un treno fermo alla stazione e vedendo il convoglio del binario accanto iniziare a muoversi, ci sembra che sia il nostro treno a partire. In un altro caso di illusione ottica, il nostro io ci appare l’unico elemento stabile nel bel mezzo di un mondo estremamente volatile in cui tutti gli oggetti apparentemente solidi continuano ad apparire e sparire, a cambiare forma e colore ogni volta che vi poggiamo lo sguardo. Il nostro corpo e la nostra anima hanno una speranza di vita maggiore di qualunque altra cosa al mondo; ogni qual volta ricerchiamo la certezza, la cosa più saggia da fare ci sembra investire nell’autopreservazione. E così cerchiamo di trovare rimedio ai disagi dell’incertezza nella ricerca di sicurezza, vale a dire nell’integrità del nostro corpo e di tutte le sue estensioni e baluardi: la nostra casa, i nostri beni, il quartiere in cui viviamo. E nel fare ciò, cresce in noi la diffidenza nei confronti di quanti ci circondano, e in particolare degli estranei. Gli estranei sono l’incarnazione stessa dell’insicurezza e di conseguenza impersonificano l’incertezza che tormenta la nostra vita. Da un certo punto di vista, bizzarro quanto perverso, la loro presenza è rinfrancante, perfino rassicurante: le nostre paure soffuse e frammentate, difficili da inquadrare e definire, hanno ora un bersaglio concreto su cui focalizzarsi; ora sappiamo dove cova il pericolo e non è più necessario attendere a capo chino i colpi che il destino ci riserva. Finalmente “possiamo fare” qualcosa. (…)
Non sorprende, dunque, che eccezion fatta per gli autori di libri accademici e per qualche politico (di norma quelli non al potere), si senta parlare ben poco di «incertezza esistenziale» o di «incertezza ontologica», e moltissimo invece – da ogni dove – delle minacce alla sicurezza delle strade, delle case e delle persone, e quanto si sente sembra corrispondere appieno a quella che è la nostra esperienza quotidiana, a quanto vediamo con i nostri occhi. Allorché si parla dei possibili modi per migliorare la nostra vita, le richieste di eliminare dal cibo che mangiamo sostanze pericolose e potenzialmente letali e di ripulire le strade da estranei imperscrutabili e potenzialmente pericolosi sono quelle sollevate più spesso, nonché quelle che appaiono più credibili, più evidenti, di tutte le altre. Agire in un modo che contraddica tali richieste è ciò che con maggiore facilità siamo portati a classificare come comportamento criminale e che desideriamo venga punito con la massima severità.
Antuan Garapon, studioso del diritto francese, ha rilevato che se tutte le azioni malvagie perpetrate «in alto», nelle stanze dei bottoni delle grandi compagnie multinazionali, restano di regola ben nascoste, e qualora vengono fugacemente esposte al pubblico sono di norma scarsamente comprese e oggetto di un’attenzione men che effimera, la rabbia dell’opinione pubblica raggiunge il parossismo quando si tratta di danni causati al corpo umano. Tabagismo, molestie sessuali ed eccesso di velocità alla guida, i tre crimini che l’opinione pubblica condanna con maggiore fermezza e per i quali chiede le pene più severe, non hanno nulla in comune se non la paura per una minaccia all’integrità fisica.
Nel suo acclamato libro di sfida alle élites politiche – e appropriatamente intitolato “Protect or Go Away” («Proteggeteci o smammate») – Philippe Cohen cita la «violenza urbana» fra le tre maggiori cause di ansia e infelicità (insieme alla disoccupazione e alla vecchiaia priva di sicurezza). (Zygmunt Bauman, “Voglia di comunità”, Editori Laterza)
Insomma, chiusi come siamo nel nostro egoismo consumistico e competitivo, non ci rendiamo conto di accusare della nostra incertezza ontologica e della nostra infelicità altri infelici identici a noi. Non chiediamo il redde rationemai veri responsabili della nostra crisi che è – contemporaneamente – personale e sistemica. Mentre i veri responsabili sono le Corporation transnazionali, le Banche internazionali e tutta la pletora di politici ed economisti sicofanti.
Accettiamo noi stessi per primi di essere trattati come “cose” che si gettano non appena ne cessa l’utilità.
Anche dal punto di visto lessicale: quello che una volta era il “personale” ora sono le “risorse umane”, del tutto assimilabili alle “risorse strumentali” ed altrettanto facilmente fungibili. Quando organismi sovranazionali tristemente famosi come OCSE, Banca Mondiale, FMI, UE, BCE, parlano di “riforme strutturali” e di “piena flessibilità lavorativa” retrocedono milioni di lavoratori a cose, infischiandosene se dietro a “ristrutturazioni” e “globalizzazione” ci sono milioni di famiglie a rischio sopravvivenza.
Ma il fatto più grave è che i primi ad accettare questa realtà di pura follia neoliberista sono le stesse categorie di consumatori-lavoratori sempre più precarizzate persino nel consumo dei beni necessari alla sopravvivenza. Secondo il folle paradigma su cui si fonda l’attuale contro-realtà, se un individuo ha un lavoro precario o non ha alcun bene, la colpa è solamente sua. «Ai poveri viene addossata la colpa ma i ricchi si prendono il piacere».
“Going for Growth [rapporto annuale dell’OCSE, tanto fallimentare che, pur ammentando che le richieste di deregolazione del mercato italiano sono sempre più implementate, non riesce a spiegarsi perché il PIL italiano crolli anno dopo anno, ndr]  non trae lezioni dalla crisi e continua a insistere sulla deregolazione del mercato del lavoro.
Le politiche che contribuiscono alla crisi attuale vengono presentate come soluzioni. È particolarmente preoccupante che l’OCSE raccomandi di ridurre la protezione per i lavoratori, in un momento in cui si richiede maggiore fiducia.”
La «mano invisibile del mercato», che con molta fantasia si pensa operi per il benessere universale – la mano che la politica di deregolazione dello Stato mira a liberare dalle manette giuridiche precedentemente predisposte al fine di limitarne la libertà di movimento – può anche essere davvero invisibile, ma non abbiamo molti dubbi a chi quella mano appartenga e chi ne diriga i movimenti… La «deregolazione» delle banche e del movimento dei capitali permette ai ricchi di muoversi liberamente, di cercare e trovare i migliori terreni di sfruttamento e quelli più capaci di generare profitti e così diventare più ricchi, mentre la «deregolazione» del mercato del lavoro rende i poveri incapaci di star dietro agli exploit, e li mette ancor meno in grado di arrestare o almeno rallentare le peregrinazioni dei possessori di capitali (rinominati «investitori» nel gergo della Borsa), e quindi alla fine non può che renderli più poveri. Oltre al danno arrecato al loro livello di reddito, le loro possibilità di impiego e di salario per vivere si trovano ora esposte ai capricci dei capitali a caccia di ricchezza, le loro prospettive di competizione diventano cronicamente precarie e producono acuto sconforto spirituale, perpetua preoccupazione e cronica infelicità: flagelli che non spariranno e non cesseranno di tormentare neanche nei (brevi) periodi di relativa sicurezza. (Zygmunt Bauman, «“La ricchezza di pochi avvantaggia tutti” Falso!», Editori Laterza)
E’ il Consumismo all’ennesima potenza. Anche gli umani possono e devono essere trattati come merci in transazioni commerciali ove le Corporation globali hanno il potere di deflazionare sempre più il compenso per il lavoro svolto, la cui quantità deve aumentare ogni giorno di più, comprimendo la sfera religiosa, spirituale e ultramateriale in ambiti sempre più minuscoli, oscurati dalla propaganda-pubblicità.
Parafrasando uno slogan politico coniato per la campagna elettorale di Bill Clinton nel 1992, «è la società liquida, stupido»…
È in questo modello di relazione cliente-merce o utente-utilità trasferito nell’interazione da-umano-a-umano che noi tutti, consumatori in una società di consumatori, siamo educati dalla prima infanzia e per tutta la vita. Questa educazione porta buona parte della responsabilità per l’attuale fragilità dei legami umani e per la fluidità delle associazioni e unioni umane, mentre la friabilità e revocabilità dei vincoli umani sono a loro volta fonte prolifica e permanente delle paure di esclusione, abbandono e solitudine che ossessionano al giorno d’oggi molti di noi e provocano tanta ansia spirituale e infelicità. E non c’è da stupirsi: il modello inguaribilmente asimmetrico della relazione soggetto-oggetto, una volta assunto e riciclato dal mercato di consumo a somiglianza della relazione cliente-merce, si rivela singolarmente inadatto a guidare e mantenere la comunità e l’interazione umana in cui noi tutti giochiamo, simultaneamente e alternativamente, il ruolo di soggetti e di oggetti. A differenza del modello cliente-merce, la relazione umano-umano è simmetrica; entrambi i lati della relazione sono «soggetti» e «oggetti» allo stesso tempo, e i due aspetti che essi assumono non possono essere separati l’uno dall’altro. Entrambi sono agenti motivati, fonti di iniziativa e compositori di significati, e lo scenario non può che essere a due lati, in quanto essi sono coautori dello scenario nel corso dell’interazione in cui entrambi sono attivi partecipanti: fanno e subiscono allo stesso tempo.
Se i due lati dell’interazione non concordano di giocare entrambi i ruoli di soggetti e di oggetti, e non accettano i rischi che ne seguono, è inconcepibile una relazione veramente e pienamente umana (cioè una relazione che richiede un genuino incontro e una previa cooperazione di soggetto e oggetto).
Ci sono rischi, è vero, rischi che non possono essere eliminati e che provocano tensione per l’ineludibile possibilità di uno scontro fra due soggettività: fra due agenti autonomi, autopropulsivi, che vedono la situazione condivisa da prospettive separate, che perseguono obiettivi non coordinati in anticipo, e che difficilmente sono sempre pienamente allineati. Le frizioni sono perciò inevitabili, e i protagonisti non possono far altro che attrezzarsi per le prospettive di scomode e spesso spinose e pungenti negoziazioni, sconfortanti compromessi e penosi sacrifici. Nessuno dei protagonisti può pretendere una indivisibile sovranità sulla situazione e un pieno comando sul suo sviluppo; né può sperare seriamente di acquistarla. Questi rischi sono il prezzo da pagare inesorabilmente per godere degli unici, sani piaceri che la vita degli uomini in una comunità amichevole e cooperativa ha in serbo. L’accordo a pagare quel prezzo è la formula magica che apre la porta a un Sesamo di tesori. Ma non c’è da meravigliarsi che molte persone possano trovare il prezzo troppo gravoso. È a persone del genere che è diretto il messaggio dei mercati di consumo, che promettono di spogliare le relazioni umane dei disagi e degli inconvenienti cui sono associate (in pratica: di riconfigurarle secondo il modello della relazione cliente-merce). E simili promesse sono la ragione per cui così tanti di noi trovano l’offerta allettante e l’abbracciano con tutto il cuore, infilandosi volontariamente nella trappola, beatamente ignari delle perdite che lo scambio preannuncia.
Le perdite sono enormi, e pagate nella valuta di nervi a pezzi e oscure, vaghe e diffuse paure fluttuanti, poiché la vita dentro la trappola richiede di essere costantemente in allerta: fiutare la possibilità, e anche la probabilità, di malevole intenzioni e complotti nascosti in ogni sconosciuto, ogni passante, ogni compagno di lavoro. Per quelli che sono caduti nella trappola il mondo si presenta come carico di diffidenza e pieno di sospetti; ognuno o quasi ognuno dei vicini è colpevole fino a prova di innocenza, mentre ogni assoluzione è solo temporanea, in attesa di ulteriore osservazione, sempre aperta all’appello o alla revoca istantanea. Ogni coalizione in cui entriamo con altri umani tende a essere ad hoc e accompagnata da una clausola di uscita su richiesta. L’impegno, per non parlare dell’impegno a lungo termine, tende ad essere sconsiderato; sono insistentemente raccomandate e molto richieste l’impermanenza e la flessibilità dell’associazione (che non possono non far sentire tutti i legami inter-umani spiacevolmente fragili e tuttavia più fissipari): per la sicurezza, si tende a contare più sulla televisione a circuito chiuso e sulle guardie armate all’ingresso che sulla buona volontà umana e l’amichevolezza. Tutto sommato, dopo essere caduto in una simile trappola, il mondo è inospitale per la fiducia e la solidarietà umana e la cooperazione amichevole. Quel mondo svaluta e denigra la mutua affidabilità e lealtà, l’aiuto reciproco, la cooperazione disinteressata e l’amicizia in sé e per sé; per questo diventa sempre più freddo, straniero e non invitante. Come se fossimo ospiti non benvenuti nella casa di un altro (ma di chi?), in attesa di un ordine di sfratto già alla posta o nella cassetta delle lettere. Ci sentiamo circondati da rivali, competitori nell’infinito gioco del fare sempre meglio degli altri, un gioco in cui il tenere le mani tende a essere confuso col mettere le manette e l’abbraccio amichevole tende a essere scambiato con la schiavizzazione…
Liquidare questa trasformazione richiamandosi all’antichità dell’adagio homo homini lupus est è un insulto per i lupi.
La nostra situazione è la conseguenza ultima dell’aver sostituito la competizione e la rivalità – modo d’essere derivante dal credere nell’arricchimento dei pochi come la via maestra per il benessere di tutti – all’anelito umano, troppo umano, a una coabitazione basata sulla cooperazione amichevole, la reciprocità, la condivisione, la fiducia, il riconoscimento e il rispetto vicendevole. (Zygmunt Bauman, «“La ricchezza di pochi avvantaggia tutti” Falso!», Editori Laterza)
Isolati nel nostro individualismo edonistico e consumista, stiamo perdendo la conoscenza e la consapevolezza dei ritmi lenti e profondi del nostro spirito e della nostra anima. Come leggiamo nell’articolo “Olomovimento”, noi, insieme a tutto il nostro Universo, siamo un Tutt’uno, un’unica Entità.  Siamo parte di Dio, ma nel nostro isolamento materialistico, la nostra scintilla divina va inesorabilmente spegnendosi.
http://www.isoladiavalon.eu/i-consumatori-cose/

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