martedì 4 giugno 2019

La Censura di Facebook? Quello che manca oggi è un Social Network pubblico

La censura di Facebook? Quello che invece manca oggi è un social network pubblico
di Marco Trombino

Pochi giorni fa è stata pubblicata la notizia che Facebook ha bloccato 23 pagine, tutte legate all’area politico-culturale populista di destra, oppure simpatizzanti dell’attuale governo giallo-verde.



La segnalazione della presenza di questi siti e dei loro contenuti, considerati non conformi alle regole del social, sarebbe partita da Avaaz.org, una ONG americana di ispirazione liberale, fondata da Ricken Patel, persona notoriamente vicina alla “Rockfeller Foundation”.
La motivazione di tale oscuramento era che le pagine avevano violato l’etica del social in tema di migranti, vaccinazioni e antisemitismo. Come era prevedibile, nei giorni successivi sono stati pubblicati articoli indignati da parte di chi invece ha fatto parte di tali gruppi Facebook o semplicemente simpatizzava per i contenuti e per la cultura politica che esprimevano.
Si è gridato alla “censura” e alla “limitazione della libertà di espressione”. In senso assoluto, questa denuncia può essere considerata vera: aver chiuso alcune pagine solo perché esprimevano precise idee su obbligo vaccinale o immigrazione, corrisponde di fatto ad una limitazione della libertà di parola, e rappresenta sicuramente un appoggio palese alle posizioni politiche opposte. Ma il punto non è questo. In tutte le considerazioni indignate sulla “censura”, mancava un particolare importantissimo: Facebook è un social prodotto e gestito da una società privata statunitense.
Un social network privato deve essere considerato alla stregua di un’associazione bocciofila: si tratta di una struttura formata da privati cittadini, si dota delle regole e delle limitazioni che ritiene opportune e non può esservi un obbligo di legge che preveda che ogni possibile attività sia necessariamente svolta al suo interno. Se una bocciofila scrive nel proprio statuto che non si possono giocare partite con bocce di colore giallo, ha tutto il diritto di farlo ed è ridicolo che qualche iscritto strilli alla “limitazione della libertà” nell’associazione, specialmente se questa è stata fondata in un paese straniero con altre leggi societarie: se ciò non gli piace, cambi pure bocciofila e si iscrivi ad un’altra più tollerante nei confronti dei colori delle bocce.
Fuori di metafora, se il comportamento di Facebook a qualcuno non piace la soluzione è semplicissima: se ne esce e si sceglie un altro social. Facebook non è un diritto. È una struttura privata e non ci si può aspettare che il privato rispetti per forza le regole di libertà assoluta e universale di chi scrive, specialmente se il proprietario di questa struttura è uno dei più ricchi oligarchi americani che risponde al nome di Mark Zuckerberg.
Quello che invece manca oggi è un social network pubblico, gestito dallo Stato e a disposizione di tutti i cittadini. In un sito del genere, sarebbe corretto applicare le norme di sicurezza e di libertà d’espressione previste dalle leggi della Repubblica, per cui diverrebbe un luogo in cui ognuno potrebbe esprimere sicuramente la propria opinione nel rispetto delle normative vigenti e senza ulteriori restrizioni che vadano a simpatia ed antipatia.
L’iscrizione ad un social pubblico dovrebbe essere un diritto del cittadino, e l’esclusione di un iscritto da esso dovrebbe essere possibile solo a fronte di comprovate rilevanze penali. Tuttavia, coloro che si sono indignati per le pagine Facebook recentemente chiuse, spesso appartengono a quell’area politico-culturale liberista, che per venticinque anni ha gridato alle privatizzazioni.
Se si privatizza l’informazione, non si può poi pretendere che il privato si comporti come un servizio pubblico, magari con maggiore correttezza. Il privato si comporta come i suoi personali ed egoistici interessi gli indicano. E se questi interessi gli dicono di oscurare siti che parlano di vaccinazioni, lo fa: è il mercato, bellezza.
I liberisti non hanno mai capito, o fingono di non capire che privatizzare un servizio non solo non corrisponde necessariamente a migliorarne le qualità, ma comporta anche lasciare nelle mani e all’arbitrio di una ristretta cerchia di oligarchi, la decisione se erogare o meno il servizio stesso, e a chi.
Articolo di Marco Trombino

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