martedì 14 maggio 2019

LA LUCE O L’INIZIO DELLE FORME


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di Robert Grosseteste (1175-1253)
Proponiamo qui la traduzione italiana offerta da Paolo Rossi dell’opuscolo De luce (La luce) scritto da Roberto Grossatesta (1175-1253). L’autore, uno dei più importanti maestri dell’università di Oxford poi divenuto vescovo di Lincoln nel 1253, sostenne la necessità di applicare la matematica allo studio della natura fisica. Influenzato dal neoplatonismo e dai trattati arabi di ottica, Grossatesta intende interpretare l’istante “atemporale” dell’origine dell’universo, indicando la luce come forma prima dei corpi, che fa sì che la materia prima (non formata) si estenda e si espanda secondo le tre dimensioni. Essa si diffonde trascinando con sé la materia (informata) e moltiplicandosi infinitamente origina la quantità finita e così la struttura dell’universo, concepita come una serie di sfere. Il testo, che risulta diviso in due parti, la prima dedicata alla metafisica della luce in senso stretto e la seconda ad una cosmogonia, procede in questo modo: inizialmente chiarisce le necessarie nozioni metafisiche, quindi presenta gli enunciati matematici che spiegano l’espansione e descrive la formazione delle 13 sfere dell’universo (9 celesti e inalterabili, 4 – gli elementi – del mondo inferiore e soggetto al cambiamento), per concludersi con una discussione del numero perfetto. La novità risiede nella consapevole sintesi tra la Genesi biblica e la cosmogonia aristotelica del De caelo, a differenza della quale la realtà ha una struttura matematica. Il testo, che dunque contiene alcune concezioni medievali metafisiche e astronomiche, è un esempio della sintesi tra filosofia e scienza propria della scuola di pensiero di Oxford ed è un’importante fonte quanto alla metafisica della luce medievale.
Ritengo che la forma prima corporea, che alcuni chiamano corporeità, sia la luce. La luce infatti per sua natura si propaga in ogni direzione, così che da un punto luminoso si genera istantaneamente una sfera di luce grande senza limiti, a meno che non si frapponga un corpo opaco. La corporeità è ciò che necessariamente è prodotto dall’estendersi della materia secondo le tre dimensioni, sebbene l’una e l’altra, cioè la corporeità e la materia, siano sostanze in se stesse semplici, prive di qualsiasi dimensione. Non fu possibile, in verità, che la forma, in se stessa semplice e priva di dimensione, conferisse la dimensionalità in ogni parte alla materia, a sua volta semplice e priva di dimensione, se non moltiplicando se stessa ed estendendosi immediatamente per ogni dove, trascinando la materia nel suo estendersi, dal momento che la forma in quanto tale non si può separare dalla materia, perché non è scindibile da essa, né la materia può essere privata della forma. Ora, io ho indicato nella luce ciò che ha per natura questa capacità, cioè di moltiplicare se stessa e di propagarsi istantaneamente in ogni direzione. Quindi qualunque cosa produce questo effetto o è la luce oppure la produce in quanto partecipe della natura della luce, la quale agisce in tal modo per propria virtù. Quindi, o la corporeità è la luce stessa oppure essa agisce in quel modo e conferisce le dimensioni alla materia in quanto partecipa della natura della luce e agisce in virtù di essa. Ma, in verità, non è possibile che la forma prima conferisca le dimensioni alla materia in virtù di una forma ad essa posteriore; dunque la luce non è una forma posteriore alla corporeità, ma è la corporeità stessa. Inoltre, i filosofi ritengono che la forma prima corporea sia di maggior valore rispetto a quelle successive, che abbia una essenza più eminente e più nobile, e che sia quella che è maggiormente simile alle forme separate. La luce senza dubbio ha una essenza più eminente, superiore e più nobile di quella di tutte le cose corporee, e più di tutti i corpi è simile alle forme separate, che sono le intelligenze. La luce, dunque, è la prima forma corporea. La luce, dunque, che è la prima forma nella materia prima creata, moltiplicandosi da se stessa per ogni dove in un processo senza fine ed estendendosi in ugual misura in ogni direzione, al principio del tempo si diffondeva traendo con sé la materia in una quantità grande quanto la struttura dell’universo. E l’estendersi della materia non poté avvenire senza un processo di moltiplicazione della luce che fosse finito perché ciò che è semplice non genera il “quanto” [1], se replicato in una successione finita, come mostra Aristotele nel De caelo et mundo [2]; mentre genera necessariamente un “quanto” finito dopo un processo di moltiplicazione all’infinito, poiché ciò che è prodotto in questo modo oltrepassa infinitamente ciò dalla cui moltiplicazione è prodotto. Ora, ciò che è semplice non può essere infinitamente oltrepassato da ciò che a sua volta è semplice, ma soltanto la quantità finita oltrepassa infinitamente ciò che è semplice; infatti il “quanto” finito moltiplicato infinite volte oltrepassa infinitamente ciò che è semplice. Necessariamente, quindi, la luce, che in sé è semplice, mediante un processo di moltiplicazione infinita, fa sì che la materia, a sua volta semplice, acquisti le dimensioni di una grandezza finita.
È possibile, d’altra parte, che un insieme infinito di numeri sia in rapporto a una serie infinita in ogni proporzione numerica e anche non numerica [3]. E ci sono serie infinite maggiori di altre e altre serie minori. L’insieme di tutti i numeri sia pari che dispari è infinito, e come tale è maggiore dell’insieme dei numeri pari, che nondimeno è infinito, perché il primo supera l’altro per l’insieme di tutti i numeri dispari. Anche la serie non interrotta dei numeri doppi successivi alla unità è infinita, come pure la serie dei sottomultipli corrispondenti a quei multipli è infinita; ma necessariamente l’insieme dei sottomultipli è sottomultiplo rispetto all’insieme dei multipli. Allo stesso modo l’insieme di tutti i numeri che sono la terza parte corrispondente di quelli. Lo stesso vale per ogni proporzione numerica, perché secondo ciascuna di esse è possibile stabilire un rapporto tra un infinito e un altro infinito[4]. Se poniamo, infatti, la serie ininterrotta dei numeri doppi successivi all’unità e la serie infinita di tutti i numeri che sono la metà corrispondente di quei doppi, e togliamo dall’insieme dei sottomultipli l’unità o qualunque numero finito, fatta la sottrazione non avremmo ancora la proporzione di uno a due fra la prima serie e ciò che resta della seconda, ma neppure avremmo una qualche proporzione numerica, perché se da una proporzione numerica, sottraendo dall’estremo minore, rimanesse un’altra proporzione numerica, bisognerebbe che ciò che è sottratto fosse configurabile come una qualche parte o un certo numero di parti di ciò da cui viene tolto. Ma il numero finito non può essere considerato parte o alcune parti del numero infinito; dunque, tolto un numero dall’insieme infinito dei sottomultipli, non permane una proporzione numerica tra l’insieme infinito dei numeri doppi e ciò che resta dell’insieme infinito dei loro sottomultipli. Stando così le cose, è chiaro che la luce nella moltiplicazione infinita di se stessa estende la materia in dimensioni finite minori e maggiori secondo le proporzioni che vengono a determinarsi fra di esse, numeriche cioè e non numeriche. Infatti, se la luce nella moltiplicazione infinita di sé estende la materia nella misura di due cubiti, raddoppiata quell’infinita moltiplicazione la estende nella misura di quattro cubiti, e dimezzata la estende nella misura di un cubito; e così via secondo le altre proporzioni numeriche e non numeriche. Questo, credo, fu l’intendimento di quei filosofi che affermarono che tutte le cose sono formate da atomi, e che ritennero che i corpi sono formati da superfici, le superfici da linee e le linee da punti [5]. Né questa posizione va contro quella che afferma che la grandezza è formata solamente da grandezze, perché in tanti modi si dice il tutto quanto la parte. In un senso infatti si dice che la metà è la parte del tutto che presa due volte ricostituisce il tutto, e in un altro che il lato è la parte della diagonale, che preso poco più di una volta dà la diagonale, ma preso più di una volta supera la diagonale [6]. E ancora, una cosa è dire che l’angolo di tangenza è parte dell’angolo retto, nel quale sta infinite volte [7], e tuttavia sottratto un numero finito di volte da quello lo diminuisce; e un’altra è dire che il punto è parte della linea, nella quale sta infinite volte, ma che sottratto da essa per un numero finito di volte non la diminuisce. Tornando al mio discorso, dico che la luce, moltiplicandosi infinitamente per propria virtù in ugual misura in ogni direzione, estende parimenti in forma di sfera la materia per ogni dove, e ne segue che, in forza di questo estendersi, nelle parti più esterne della materia si verifica una espansione e una rarefazione maggiore che non nelle parti più interne, prossime al centro; cosicché mentre le parti più esterne avranno raggiunto il massimo grado di rarefazione, quelle più interne saranno ancora suscettibili di maggior rarefazione. Quindi la luce, estendendo la materia prima in forma di sfera nel modo predetto e rarefacendo al grado massimo le parti più esterne, nella zona periferica della sfera realizzò le potenzialità della materia, tanto da non lasciare spazio per una ulteriore spinta. E in questo modo all’estremità della sfera si è formato il primo corpo, che è chiamato firmamento, composto solamente da materia prima e forma prima, e perciò è un corpo semplicissimo relativamente alle parti che costituiscono l’essenza e la quantità massima; esso non differisce dai corpi se non perché in esso la materia è determinata solamente dalla forma prima. Il tipo di corpo, infatti, che si trova in questo e negli altri corpi celesti, avendo nella sua essenza la materia prima e la forma prima, non subisce aumento di materia né diminuzione della materia mediante la forma prima. Originatosi pertanto in questo modo il primo corpo, cioè il firmamento, a sua volta esso emana il proprio lume da ogni parte verso il centro dell’universo. Poiché il primo corpo è stato originato dalla luce, che per sua natura si moltiplica, dal primo corpo per necessità si diffonde verso il centro la luce, che, essendo forma per nulla separabile dalla materia, nel diffondersi dal primo corpo trascina con sé la spiritualità della materia del primo corpo. La luce, dunque, emana dal primo corpo, che è un corpo spirituale, o, se si preferisce, uno spirito corporeo. Poiché la luce al suo passaggio non divide il corpo che attraversa, per questo passa istantaneamente dal corpo del primo cielo fino al centro. Il suo passaggio, però, non è da intendersi come quello di una cosa che passi istantaneamente dal cielo al centro – perché questo probabilmente è impossibile –, ma il suo passaggio avviene per moltiplicazione di sé e per infinite generazioni della luce. La luce, dunque, propagatasi dal primo corpo e raccoltasi verso il centro, compresse la massa esistente al di sotto del primo corpo; e dal momento che il prima corpo non poté subire diminuzione, in quanto compiuto e immutabile, né fu possibile che si creasse uno spazio vuoto, avvenne necessariamente che nella compressione le parti più esterne della massa si estendessero e si separassero. Così si aveva di conseguenza una maggior densità nelle parti interne della massa, mentre in quelle esterne la densità diminuiva. E fu così grande la forza della luce nella sua spinta di compressione e contemporaneamente di separazione, che provocò la massima rarefazione e la diminuzione di densità delle parti esterne della massa situata al di sotto del primo corpo. In questo modo si veniva a formare in quelle parti la seconda sfera, in se stessa compiuta, non suscettibile di alcuna ulteriore spinta. Così avviene la formazione e il completamento della seconda sfera: il lume è generato dalla prima sfera, ma mentre nella prima sfera è semplice, nella seconda la luce è duplicata. Ora, come la luce generata dal primo corpo formò la seconda sfera e lasciò al di sotto della seconda sfera una massa più densa, così la luce generata dalla seconda sfera diede origine alla terza sfera e lasciò al di sotto di essa una massa ancor più densa. Orbene, secondo questo ordine si sviluppò il processo di concentrazione disgregante, finché si formarono le nove sfere celesti e si concentrò all’interno della nona sfera inferiore una massa compressa, che era la materia composta dai quattro elementi. Ora, l’ultima sfera, che è quella della luna, generando luce essa pure, mediante la sua luce produsse una concentrazione anche nella massa al suo interno, che a sua volta provocò l’assottigliamento e la disgregazione delle sue parti più esterne. Tuttavia la forza di questa luce non fu tanto grande da provocare con la concentrazione la disgregazione massima delle parti esterne; perciò in quella massa il processo restò incompiuto, e quindi mantenne la possibilità di subire concentrazione e disgregazione, e la sua parte più esterna conservò ancora i caratteri propri degli elementi, pur essendo stata tuttavia tramutata in fuoco dal processo di disgregazione. Questo elemento, emanando luce e concentrando la massa situata al di sotto di sé, ne provocò la disgregazione delle parti esterne, sebbene in grado minore rispetto alla propria. In questo modo fu prodotto il fuoco, il quale, generando luce a sua volta e comprimendo la massa pasta al di sotto di sé, produsse lo stesso effetto di disgregazione delle parti esterne, dando così origine all’aria. La quale pure, generando un corpo spirituale, o uno spirito corporeo, e comprimendo la materia posta all’interno della sua sfera così da provocare la disgregazione delle parti esterne, diede origine all’acqua e alla terra; ma, poiché nell’acqua continuò a permanere una potenza congregante maggiore di quella disgregante, anche l’acqua rimase unita alla terra, che è pesante. In questo modo dunque si sono originate le tredici sfere di questo mondo sensibile, vale a dire le nove sfere celesti inalterabili, nelle quali non c’è aumento, generazione o distruzione, perché sono totalmente compiute, e quattro che al contrario sono alterabili, nelle quali c’è accrescimento, generazione e distruzione, come è naturale per ciò che non è totalmente compiuto. Ed è chiaro anche perché ogni corpo superiore, secondo il lume generato da sé, sia la specie e la perfezione del corpo successivo; e come l’unità in potenza è in certo qual modo ogni numero seguente, così il primo corpo in virtù della moltiplicazione della sua luce è in un certo senso ognuno dei corpi derivati. La terra, poi, in forza della concentrazione in se stessa delle luci superiori, è tutti i corpi superiori; per questo dai poeti è chiamata Pan, cioè tutto, e anche Cibele, si direbbe quasi “covile”, che deriva dal “cubo”, vale a dire la solidità, perché fra tutti i corpi essa è la più compressa; cioè Cibele, la madre di tutti gli dei, perché, sebbene nelle zone superiori si siano accumulati i lumi, essi non sono tuttavia comparsi in essa per propria virtù, ma è possibile far scaturire da essa il lume di qualsiasi sfera; così da essa come da una madre sarà generato qualsiasi dio. Invece i corpi che stanno nel mezzo hanno una duplice caratteristica. Rispetto ai corpi inferiori, infatti, si comportano come il primo cielo rispetto agli altri corpi; verso i corpi superiori, invece, si comportano come la terra nei confronti di tutti gli altri corpi; e così in altri modi in ciascuno dei cieli sono tutti gli altri cieli. Il principio determinatore e la perfezione di tutti i corpi è, dunque, la luce, che nei corpi superiori, però, è più spirituale e semplice, mentre in quelli inferiori è più corporea e maggiormente moltiplicata. Né tutti i corpi sono della medesima specie, sebbene siano stati originati da luce semplice o moltiplicata, come neppure tutti i numeri sono della stessa specie, pur essendo stati formati con una minore o maggiore moltiplicazione a partire dall’unità. Dicendo queste cose, forse si fa palese l’intendimento di coloro i quali dicono che tutte le cose sono un’unica entità, perché originate dalla perfezione di una sola luce, e quello di coloro che sostengono che il molteplice è tale per la differente moltiplicazione della luce [8]. Ora, poiché i corpi inferiori partecipano della forma dei corpi superiori, il corpo inferiore, per la forma che condivide con il corpo superiore, riceve il moto dalla medesima forza motrice incorporea dalla quale è mosso il corpo superiore. Per la qual cosa, la forza incorporea dell’intelligenza o dell’anima, che muove la sfera prima e suprema con un moto della durata di un giorno, muove con lo stesso moto tutte le sfere celesti inferiori; ma quanto più sono inferiori, tanto più debolmente ricevono questo moto, perché quanto più è inferiore la sfera, tanto più in essa la luce prima corporea è meno pura e più debole. Sebbene, poi; gli elementi partecipino della forma del primo cielo, non sono, tuttavia, mossi con un moto diurno dal motore del primo cielo; pur partecipando della luce prima, non assecondano tuttavia la forza motrice prima, poiché essi posseggono questa luce ma impura, debole, lontana dalla purezza che ha nel primo corpo, e perché essi hanno anche la densità della materia, che è il principio della resistenza e del rifiuto. Tuttavia alcuni ritengono che la sfera del fuoco ruoti con moto diurno, e a prova di questo portano il moto circolare delle comete, e dicono pure che questo moto si trasmette fino alle acque del mare, così da causare le maree. Ma tuttavia tutti coloro che argomentano correttamente sostengono che la terra è priva di questo moto.
In modo simile le sfere che vengono dopo la seconda, che comunemente secondo il calcolo fatto a partire dal basso è detta ottava, poiché partecipano della forma di quella partecipano tutte del suo moto, che hanno come proprio oltre al moto diurno. Poiché poi le sfere celesti sono compiute e non soggette a rarefazione o condensazione, in esse a luce non può provocare lo spostamento di particelle della materia dal centro, in modo da produrre rarefazione, oppure verso il centro, condensandole. E a causa di ciò le sfere celesti non sono suscettibili dei moti verso l’alto o verso il basso, ma solamente del moto circolare prodotto dalla forza motrice dell’intelligenza, la quale, riflettendo su se stessa al modo di un corpo l’intelletto, fa compiere al corpo delle sfere una rotazione circolare. Negli elementi, invece, poiché sono incompiuti e soggetti a rarefazione e condensazione, la luce che è in essi provoca uno spostamento dal centro, producendo rarefazione, o verso il centro, così da condensarli; per cui a motivo di questo essi sono per natura soggetti al moto verso l’alto o verso il basso. Nel corpo più alto, che è il più semplice tra i corpi, abbiamo quattro determinazioni, vale a dire la forma, la materia, la composizione e il composto. La forma, essendo semplicissima, sta al posto dell’unità. La materia a buon diritto partecipa della natura del numero due a causa della sua duplice potenzialità, cioè la capacità di avvertire e di recepire gli influssi, e anche a causa della divisibilità [9] che è per natura propria della materia, la quale in primo luogo e principalmente inerisce al numero due. La composizione ha in sé la natura del numero tre, perché in essa troviamo la materia determinata dalla forma, la forma inerente alla materia e la proprietà stessa conferita dalla composizione, che in ogni composto è identificabile come l’altro e terzo elemento distinto dalla materia e dalla forma. Ciò che si costituisce come composto, che è una determinazione reale oltre alle tre appena viste, rientra nella natura del numero quattro. Nel primo corpo, dunque, nel quale virtualmente sono gli altri corpi, noi troviamo il numero quattro, e quindi in forza della sua stessa origine il numero degli altri corpi non può essere superiore al dieci. Infatti, sommando il numero uno proprio della forma, il due della materia, il tre della composizione e il quattro del composto, si ha il numero dieci; per questo appunto dieci è il numero dei corpi delle sfere del mondo, poiché la sfera degli elementi, sebbene si divida in quattro parti, è tuttavia intesa come una sola, perché tutti gli elementi hanno in comune la corruttibilità della natura terrestre. Da quanto detto è chiaro come il dieci sia il numero perfetto dell’universo, perché ogni ente uno e compiuto ha in sé un qualcosa come la forma e l’uno, un qualcosa come la materia e il due, qualcos’altro come la composizione e il tre, e qualcosa ancora come il composto e il quattro; né d’altra parte è possibile aggiungere una quinta determinazione oltre a queste quattro, per cui ogni ente in sé uno e compiuto è rappresentabile con il numero dieci. Appare ormai manifesto, infine, che solo le cinque proporzioni rinvenute in questi quattro numeri: l’uno, il due, il tre, il quattro, si accordano alla composizione e all’armonia che costituisce ogni composto.
Per la qual cosa si danno solo queste cinque proporzioni armoniche nelle modulazioni musicali,
nella danza e nei tempi scanditi dal ritmo”

— Note —
 [1] Così rendo il latino: quantum; parallelo a questo luogo è un passo del Commento di Grossatesta alla Fisica: cfr. Roberti Grosseteste, Episcopi Lincolniensis, Commentarius in VIII libros Physicorum Aristotelis, ed. R.C. Dales, University of Colorado Press, Boulder (Colorado), 1963, p. 9.
[2] Aristotele, De caelo I 5-7.
[3] Passi paralleli si leggono in Roberti Grosseteste… Commentarius in VIII libros Physicorum Aristotelis cit., pp. 56 e 91-92.
[4] Baur (p. 53, r. 12) legge: finitum ad infinitum; accolgo, invece, la correzione di McEvoy (cfr. J. McEvoy, The Philosophy of Robert Grosseteste, Clarendon Press, Oxford 1982, p. 153, nota 13), che è attestata anche da C (f. 1rb).
[5] A questo proposito, cfr. Aristotele, De caelo III 1,299a ss., e un brano del Commento di Grossatesta alla Fisica (ed cit., p. 57); si può vedere nel passo anche un’eco di quanto riporta Diogene Laerzio (VIII 24-25) a proposito di Pitagora e dei Pitagorici: «Nelle Successioni dei filosofi Alessandro dice di aver trovato anche queste notizie nei commentari pitagorici: 25. il principio di tutte le cose è la monade; dalla monade deriva la diade indeterminata, che serve alla monade, che ne è la causa, da sostrato materiale. Dalla monade e dalla diade indeterminata, poi, nascono i numeri, e dai numeri i punti, e da questi le linee, da cui derivano a loro volta le figure piane. Dalle figure piane nascono le figure solide, e da quest’ultime corpi sensibili, i cui elementi sono quattro e cioè fuoco, acqua, terra e aria» (cfr. I Presocratici. Frammenti e testimonianze, I, Introduzione, traduzione e note di A. Pasquinelli, Einaudi [«Classici della filosofia», III*], Torino 1958, p. 89).
[6] Il testo latino nell’edizione Baur suona: «… sed (costa) aliquotiens sumpta exsuperatur a diametro» (cfr. p. 54, rr. 6-7). C al f. 1vb legge: «… exuberat a diametro», che ritengo la lezione attendibile.
[7] L’angolo di tangenza è quello formato da una tangente con una circonferenza.
[8] Riferimenti o citazioni non identificati.
[9] Leggo: divisibilitatem seguendo C, invece di: densitatem (cfr. ed. Baur, p. 58, r. 13).
Da: Roberto di Grossatesta, Metafisica della Luce, Introduzione, traduzione e note di Paolo Rossi, Rusconi, Milano 1986, pp. 113-123.

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