venerdì 5 ottobre 2018

IL MISTERO DEL BACIO DI DIO

amore_e_psiche CANOVA
di Mike Plato
Il bacio del principe a Biancaneve nella fiaba dei Grimm, il bacio della principessa al ranocchio nella favola Il principe ranocchio dei Fratelli Grimm, il bacio del principe alla Bella Addormentata nella fiaba di Perrault, il bacio di Trinity a Neo nel film Matrix, il bacio inaspettatamente salvifico di Sean Fentress a Christina Warren nel finale del film Sourcecode. L’archetipo comune sotteso a questi miti recenti e meno recenti non è tanto il bacio, ma la resurrezione che ne consegue, indipendentemente dal fatto che il resurrettore sia un uomo o una donna o che il risvegliato-trasmutato sia una donna o un uomo. Negli Eroici Furori (1585) di Giordano Bruno compare un emblema «ove son due stelle in forma di due occhi radianti con il suo motto che dice: morte e vita» e, nel sonetto che accompagna l’emblema, qualcuno implora una donna di affrettarsi a dargli una morte che coincide con la vita o una vita che coincide con la morte. Si chiarisce poi che quella donna potrà ucciderlo con lo sguardo dei suoi occhi e al contempo con quello stesso sguardo ridargli la vita. Si comprende bene che quella fanciulla che uccide per ridare vita eterna è la Sfinge, la verità in simboli che ti osserva fisso negli occhi e che pochi sono pronti a sostenere. Ciò costituisce una variante oculare della mors osculi di cabalistica memoria che Bruno descrive così: «quella morte de amanti che procede da somma gioia, chiamata dai cabalisti mors osculi (morte di bacio), figurata nella Cantica di Salomone, la qual medesima è vita eterna, che l’uomo può avere in disposizione in questo tempo ed in effetto nell’eternità». Il suo archetipo è l’apertura del Cantico dei Cantici: «che mi baci coi baci della sua bocca». Si tratta di un archetipo mistico presente nelle opere di Leone Ebreo (nei Dialoghi d’Amore, in cui, controcorrente rispetto all’ebraismo, si anela all’unione con Dio), Celio Calcagnini (… ad celestium rerum contemplationem ita rapti sunt… ut in se mortui, extra se viverent, non alia morte quam brasicae, id est osculi deperisse), Francesco Giorgi, Valeriano, Egidio da Viterbo, Baldassar Castiglione (nel Cortegiano). Ma l’anima più nobile che abbia almeno accennato a questo magnum mysterium è quella di Pico della Mirandola, filosofo e soprattutto cabalista cristiano. Nelle 72 Conclusiones Cabbalisticae secundum opinionem propriam, conclusione 11, Pico scrive: «Il modo con cui le anime razionali si sacrificano a Dio per mezzo dell’Arcangelo, che i cabalisti non descrivono, si verifica per via della separazione dell’anima dal corpo, non del corpo dall’anima, se non per accidens, come si vede nella Morte di Bacio (ebr. Beneshikah) di cui sta scritto: che cosa renderò al Signore per quanto mi ha dato? Alzerò il calice della salvezza… Preziosa al cospetto del Signore è la morte dei suoi fedeli (Salmi 116:15-16)». Altrove, precisamente nel Commento sopra una canzone d’amore di Girolamo Benivieni, Pico afferma: «Può dunque per la prima morte, che è separazione solo dell’anima dal corpo, e non per l’opposto, vedere l’amante l’amata Venere celeste e a faccia a faccia con lei, ragionando della divina immagine sua, dei suoi purificati occhi felicemente pascere; ma chi più intrinsecamente ancora la vuole possedere e, non contento del vederla e udirla, essere degnato dei suoi intimi amplessi e anelanti baci, bisogna che per la seconda morte dal corpo per totale separazione si separi, e allora non solo vede e ode la celeste Venere, ma con nodo indissolubile a lei s’abbraccia, e con baci l’uno nell’altro la propria anima trasfondendo, non tanto cambiano quelle, quanto che sì perfettamente insieme si uniscono, che ciascuna di loro due anime e ambedue una sola anima chiamare si possono. E nota che la più perfetta e intima unione che possa l’amante avere della celeste amata si denota per la unione di bacio, perché ogni altro congresso o copula più in là usata nello amore corporale non è licito per alcuno modo per traslazione alcuna usare in questo santo e sacratissimo amore; e perché e’ sapienti cabalisti vogliono molti degli antiqui padri in tale ratto d’intelletto essere morti, troverai appresso di loro essere morti di binsica, che in lingua nostra significa morte di bacio, il che dicono di Abraam, Isaac, Iacob, Moyse, Aaron, Maria, e di qualcuno altro… Questo Platone significa nei baci del suo Agatone e non quel che molti, riguardando in se stessi Platone, credono di lui». Cosa intende Pico con separazione dell’anima dal corpo e non del corpo dall’anima? Il riferimento è semplicemente ad un tipo di morte anziché un’altra. Esiste una morte preludio ad altre morti (morte naturale come porta per una nuova incarnazione) ed esiste una morte datrice di vita. Quest’ultima è quella che i mistici di ogni tempo e latitudine hanno sempre cercato e che Cristo attuò nel modo perfetto: la morte in vita. Essa è velata in Siracide 51,30: «Compite la vostra opera prima del tempo ed egli a suo tempo vi ricompenserà». Ma anche nelle parole del Cristo: «Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può più operare» (Giovanni 9,4). Con “prima del tempo” e “finché è giorno”, la Scrittura intende “prima di morire”, come fu detto anche dal grande maestro sufi Jalal od-din Rumi, che accennò all’estinzione dell’ego in Dio (fanà): «morite prima di morire» (Fihi mah Fihi). La separazione volontaria dell’anima dal corpo è il fine di un percorso mistico, che prevede il distacco dell’anima-intelletto dal corpo e le nozze mistiche con l’Intelletto trascendente-agente (Spirito, Logos). Il bacio che offre la morte datrice di vita eterna, che rappresenta l’amore e l’unione mistica di Spirito (Dio) e Anima, fu noto agli artisti classici. Il bacio è l’atto d’amore come referenza a qualche avvenimento del mistero dell’amore eterno e venne interpretato dagli scultori antichi come simbolo dell’immortalità. D’altronde, il tema della mors osculi, della morte per bacio, serve a Pico della Mirandola come testimonianza per affermare il sincretismo tra i miti pagani, l’Antico Testamento, la Cabala e il mistero della Resurrezione di Cristo. La morte è solamente la separazione volontaria dell’anima dal corpo, per questo l’amante (iniziato) può vedere la “Venere celeste” o “Sophia cosmica”. Se l’anima vuole stare più vicina al divino, deve morire in vita e staccarsi completamente dal corpo: il Solve degli alchimisti, la dissoluzione del laccio dell’anima col corpo e con l’anima carnale. Il rapporto tra l’amante terrestre e l’essere divino diviene più completo, più intimo, quando essi si uniscono con il bacio; appunto per questo affermano i cabalisti che molti dei padri morirono in una simile estasi spirituale. Per la mors osculi divennero immortali Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè ed altri. La vita veramente amorosa ed eterna comincia con la morte in quanto colui che veramente vuol vivere per l’amore, deve rinunciare ad ogni altra cosa. Il vero saggio ed amante muore per tutte le cose e persone imperfette e in tal modo si apre per lui l’oltremondo. Questa regola è seguita da Omero e da Virgilio, i quali mandavano il protagonista all’aldilà. La vera felicità, però, è preclusa ad Orfeo, perché lui non morì veramente, non seppe rinunciare totalmente al mondo fisico. Come dice Ficino: «Orfeo chiama l’Amore un pomo dolce amaro. Essendo l’Amore volontaria morte, in quanto è morte è cosa amara; in quanto volontaria è dolce». Ed ecco la spiegazione di quel misterioso «il mio giogo è dolce» espresso dal Cristo in Giovanni, perché tutti gli iniziati puntano all’esclusivo amore per Dio (Shemà Israel di Deuteronomio 6) e vanno volontari alla morte (il mio popolo è offerta volontaria, salmo 110). «Più forte della morte è l’amore» dice il Cantico dei Cantici 8:6, intendendo questo amore per Dio e di Dio per l’uomo, che può battere il paradigma della morte eterna.
Il “bacio di Dio”, con la conseguente resurrezione in spirito, è il culmine di un iter o via, caratterizzata da un rapporto di amore totale, provato da Dio per l’uomo e dall’uomo per Dio. Il suo proclama, tanto nel giudaismo che nel cristianesimo, è lo Shemà Israel, la dichiarazione d’amore totalizzante che Dio richiede all’uomo: «tu amerai YHWH tuo Dio con tutto il tuo cuore (ebr. Lev), tutta la tua anima (ebr. nepesh), e tutta la tua mente (ebr. od)». Di qui l’attributo di Dio “geloso (ebr. Qanah)”. Essendo Dio l’unico, al di fuori del quale nulla c’è, ancor più che l’unico Dio, la creatura, che è non-essere in rapporto all’essere, deve a Dio un amore puro, incondizionato e soprattutto esclusivo. Quel “deve” è metaforico, perché amare non è un obbligo, ma una mera inclinazione dell’essere che lo prova. La creatura deve sentire il legame e la dipendenza dal suo Creatore. Il “dover” amare è un concetto tipicamente ebraico, giacché l’ebraismo ortodosso, oppresso dal legalismo, ha sempre più fatto leva sul timore di Dio e quindi sul dovere. Cristo insegna non a boicottare la legge, ma ad andare oltre. Egli insegna a “desiderare” Dio, conduce la creatura al pieno compimento di quell’amore totalizzante ed esclusivo (con tutto l’essere e solo per un essere). Tre sono le componenti dell’individuo chiamate ad “amare” la divinità: il cuore, l’anima, le forze. È evidente che il cuore rappresenti il nucleo dell’uomo: lo Spirito; che l’anima sia quello che è; e che le forze siano le funzioni ed energie corporali. In sostanza, in questo amore le tre parti dell’uomo devono essere coinvolte in modo pieno. Lo Shemà non è solo un modo di sentire e vivere la divinità in noi, è anche un mantra, una formula da recitare prima di dormire e al risveglio (come fissato da Dio stesso in Deuteronomio 6). La sua recitazione ha l’effetto di dissolvere le forme-pensiero negative e combattere gli impulsi e le tendenze dello “yetzer ha-ra”, ovvero l’inclinazione maligna citata in Genesi 8:21 e descritta come albergante nel cuore umano fin dall’adolescenza. Si tratta di un concetto tanto talmudico quanto cabalistico: il conflitto fra lo yetzer ha-tov (inclinazione al bene) e lo yetzer ha-ra (inclinazione maligna), entrambi presenti nell’uomo, seppur in diversa mescolanza da individuo ad individuo. Lo gnosticismo del trattato Pistis Sophia sostituisce lo yetzer satanico con il concetto di “Spirito di opposizione”, una sorta di contro-anima che spinge l’uomo al peccato, per essere reso schiavo karmico degli Arconti in quanto magistrati astrali. Ovviamente scopo dell’uomo è giungere ad un livello di purezza assoluto, liberandosi dello yetzer oscuro ed esaltando lo yetzer divino. Più in generale, infatti, i due yetzer rappresentano la tendenza verso lo spirito e l’inclinazione verso la materia, i veri Bene e Male assoluti. I saggi affermano che «il mio cuore ho trafitto nell’intimo», espressione del salmo 109:22, sia da intendersi come «ho combattuto e vinto la mia inclinazione maligna che alberga nel cuore» (come detto da Genesi 8). E non è ipotesi tanto peregrina che il colpo di lancia al costato di Cristo sia una figura della guerra alle pulsioni materiali che, nella cabala ebreo-cristiana, sono concentrate nel fegato. Quello del salmo è un linguaggio forte, che configura un atto di mortificazione, una sorta di sacrificio del desiderio istintuale per amore di Dio: il sacrificio dell’animalità al modo di Melkizedek, attuato da Gesù stesso. Ora, è utile capire che l’iniziato ogni giorno combatte lo yetzer e ogni giorno uccide una parte di sé, soffrendo inevitabilmente. Ed è per questo che il Salmo 43,23 recita: «Per te ogni giorno siamo messi a morte, stimati come pecore da macello». Molti cabalisti si sono chiesti cosa intendesse il salmista ispirato dallo Spirito con “ogni giorno moriamo”. È ovvio che alla lettera nessuno può morire ogni giorno, ma nella Via l’iniziato combatte una parte di sé ogni giorno, sacrificandosi come Agnello di Dio, qui figurato dalla pecora da macello. È ciò che viene suggerito in codice anche dal profeta Ezechiele: «Si offrirà dunque l’agnello, l’oblazione e l’olio, ogni mattina: è l’olocausto quotidiano»(Ezechiele 46:15). Non si tratta di sacrifici animali, ma Dio spinge a sacrificare l’animalità, come è scritto sull’umiliazione dell’ego di fronte al Sé divino: «poiché non gradisci il sacrificio e, se offro olocausti, non li accetti. Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi» (Salmo 50:18-19). Ecco che l’Amore per Dio, amore totalizzante ed eclusivo, deve essere fino alla morte, non intesa come morte fisica ma come “mortificazione del comparto uman-animale” e del sacrificio di questi livelli dell’essere, al fine di andare oltre se stessi. Questo “trafiggere” è un “tagliare”, ovvero separare le due parti del compost umano con la spada della volontà e dell’alchimia. Nell’iter alchemico, gli stessi Salmi erano adoperati per separare il bene dal male e, a leggerli e recitarli, si comprende come essi siano un inno, un’invocazione alla natura divina in noi, affinché si separi da sola dallo yetzer animale, combattendola, perché di certo lo yetzer non potrebbe mai combattere se stesso. Nello scritto cabalistico Avot de rabbi Natan, è detto che «lo yetzer hara è come un re sulle 248 parti del corpo… Per contro la buona inclinazione è solo come chi sia in un carcere (corporale)». Sempre la cattiva inclinazione cospira contro la tendenza della buona ad attuare il servizio divino. Ergo c’è inconciliabilità totale tra le due nature, nessun compromesso possibile. Ed è quello che intendeva Paolo con quel «cosa in comune tra Cristo e Beliar?» (2 Corinzi 6:15), e ancor più chiaramente con «Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra» (Romani 7:18). Per molti mistici, a prescindere dalla tradizione di appartenza, il piacere dei sensi e la sua soddisfazione rappresentano l’immagine di Dio che si vela all’uomo: o c’è la vita dei sensi o c’è la vita ultra-sensibile. Quindi, questo “amore” consacrato dallo Shemà Israel non ha nulla a che vedere con l’amore umano, che è una mescolanza di emozione e sentimento. L’amore umano segue le vicende e la natura della vita: ha un inizio e una fine nel tempo. Quello che il mistico cerca è una relazione immortale con l’intimo, perché sa che non può esistere amore dove tutto muore e cessa, dove tutto è eterno divenire. Non è vita se non è eterna, non è amore se non è eterno. Solo in apparenza il cantico dei cantici è un inno all’amore mortale. In realtà, Salomone descrisse un tipo di relazione che i profani ignorano: quella con l’intimo. Volutamente Salomone fu criptico nella stesura del cantico. Non si riesce a capire se lui intenda la sposa o lo sposo come il divino. È un po’ come accade nell’incontro tra Abramo e Melkizedek, ove non è chiaro chi dia la decima a chi. Si tratta di un rapporto tra uomo esteriore e uomo interiore, ergo Salomone si rivolse a uomini e donne. Per i primi la parte femminile è intima e divina, per le seconde lo è la parte maschile: la bella addormentata nel primo caso, il principe azzurro nel secondo. Infatti Melkizedek è maschio per le donne e femmina per gli uomini. Ecco quindi che quel «tu amerai YHWH tuo Dio con tutto te stesso» è finalizzato alla rigenerazione dell’androgino primordiale, smembrato in due sessi distinti e milioni di nascite: un potente invito al vero amore, quello per l’altra parte di sé che deve compiersi con la morte di bacio. Il Giusto è tale per la sua fede, disse Paolo. Ma io aggiungo che è tale ancor più per l’amore che è alla base di quella fede.
fonte https://mikeplato.myblog.it/2018/10/04/il-mistero-del-bacio-di-dio/

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