lunedì 27 aprile 2015

Gli USA addestrano la guardia ucraina

Dean Henderson 24/04/2015
In chiara violazione dell’accordo di Minsk, le truppe statunitensi hanno iniziato l’addestramento della Guardia Nazionale ucraina nella nazione in guerra. Interfax cita il portavoce del Ministero della Difesa russo Maggiore-Generale Igor Konashenkov dire che le truppe statunitensi addestrano le forze ucraine non solo in Ucraina occidentale, “ma direttamente nella zona dei combattimenti di Marjupol, Severodonetsk, Artjomovsk e Volnovakha“. Il Pentagono ha negato qualsiasi attività ad est, ma ha riconosciuto che circa 300 membri della 173.rd Airborne Brigade degli Stati Uniti di Vicenza, Italia, sono stati inviati presso il Peacekeeping International & Security Center di Javorov, vicino il confine polacco, per addestrare le forze della Guardia nazionale di Kiev. I combattimenti sono aumentati nelle ultime settimane in Ucraina orientale, nonostante l’accordo di pace firmato a febbraio a Minsk. La portavoce del dipartimento di Stato Marie Harf accusava la Russia di disporre difese aeree e truppe vicino alla linea del cessate il fuoco. Più di 6000 persone sono morte in Ucraina orientale dall’avvio dei combattimenti dopo il colpo di Stato filo-occidentale contro il presidente democraticamente eletto Victor Janukovich. L’Ucraina ha dichiarato l’indipendenza dall’ex-Unione Sovietica nel 1991. Nel 2004-2005 le ONG occidentali operarono con finanziamenti di CIA/Mossad/MI6 inscenando la falsa rivoluzione arancione. Victor Jushenko divenne primo ministro, ma fu avvelenato durante la campagna. I media occidentali incolparono i russi, ma probabilmente era un operazione del Mossad per sostituirlo con la più banksterofila miliardaria di destra Julija Timoshenko. Timoshenko co-condusse la rivoluzione arancione ed è una delle persone più ricche dell’Ucraina. Nel 2005 Forbes la nominò terza donna più potente del mondo. Nel 2007 si recò negli Stati Uniti per incontrare il vicepresidente Dick Cheney e la consigliera della sicurezza nazionale Condaleeza Rice per parlare di energia. Timoshenko divenne ricca essendo dirigente di una società gasifera. L’Ucraina fu inserita nella distorta Policy Task Force Energy di Cheney, che aprì il pianeta alla selvaggia esplorazione di petrolio e gas, tra cui il fracking. Timoshenko privatizzò oltre 300 industrie di Stato durante il suo dominio, ma il popolo ucraino sentì puzza di ratto. Nel 2010 votò Primo Ministro Viktor Janukovich con il 48% dei voti. Il suo Partito delle Regioni sconfisse ancora il partito Patria di Timoshenko nelle elezioni parlamentari del 2012. Timoshenko fu condannata per appropriazione indebita di fondi statali e abuso di potere, a sette anni e a una multa di 188 milioni di dollari. I reati avvennero nel settore del gas. Timoshenko fu rilasciata dal carcere nell’ambito di un accordo ordito durante un incontro segreto tra Janukovich, e funzionari UE, NATO e russi svelato da William Engdahl in un articolo per Veterans Today. Subito dopo il rilascio si scatenò l’inferno.
Gli amici fascisti del Mossad
shkil_una_unso_shrine Il 22 febbraio cecchini spararono dai tetti sulla piazza di Kiev. Engdahl spiega che tali cecchini erano membri di una cellula terroristica fascista chiamata Assemblea Nazionale ucraina – Autodifesa popolare ucraina (UNA-UNSO) guidato da Andrej Shkil: il gruppo ha legami con il neo-nazista Partito Nazionaldemocratico tedesco. Secondo fonti d’intelligence di Engdahl, UNA-UNSO è parte di una cellula segreta della NATO, Gladio, ed è coinvolta nei conflitti che vanno dalla Georgia al Kosovo e alla Cecenia, nell’ambito della strategia della tensione contro la Russia. Shkil aveva anche legami diretti con Timoshenko, con il neopremier Aleksandr Turchnov, predicatore battista ed ex-consigliere di Timoshenko, che andò al potere dopo che Janukovich era fuggito in Russia per le minacce alla vita. Nel 2006 i pubblici ministeri aprirono un procedimento contro Turchinov, accusato di distruggere i documenti che mostravano i legami di Timoshenko con il capo della criminalità organizzata Semjon Mogiljovich. Con Turchinov primo ministro, l’Ucraina è dominata dai mafiosi fascisti noti collettivamente come settore destro. Non sorprende quindi, quanto Press TV riferì su Haaretz e Times of Israel vantarsi apertamente di come un gruppo di “ex” soldati israeliani, conosciuti come caschi blu di Majdan, avessero posto i “manifestanti” di Kiev sotto la guida di un uomo dal nome in codice Delta. Secondo Paul Craig Roberts, tali “manifestanti” erano pagati dall’UE e dagli Stati Uniti. Il colpo di Stato del Mossad portò al potere Settore Destro, emarginando le voci più moderate finanziate e sostenute dagli Stati Uniti, come rivelato sul video di YouTube dall’ormai famigerata assistente del segretario di Stato Victoria Nuland, mentre discute con l’ambasciatore statunitense in Ucraina Geoffrey Pyatt (entrambe agenti israeliani nel dipartimento di Stato), su chi insediare come primo ministro ucraino, una volta sbarazzato Janukovich.
Rubare risorse
Come al solito questo putsch dei bankster di Rothschild rigaurda le risorse. L’Ucraina si trova in una posizione geografica altamente strategica, costeggiando Mar Nero e Mare d’Azov. L’Ucraina è il granaio dell’emisfero orientale. Nel 2011 fu il 3.zo maggiore esportatore mondiale di grano. È tra i primi 10 Paesi al mondo per terreni agricoli. L’Ucraina aveva il 2.ndo maggiore l’esercito dell’Europa dopo la Russia e, la NATO, strumento dei Rothschild, non vorrebbe altro che cacciare la Flotta del Mar Nero russa da Sebastopoli, simbolo della potenza navale russa dal 18.mo secolo. L’Ucraina ha vasti giacimenti di gas naturale, una base industriale avanzata ed è crocevia altamente strategico degli oleogasdotti che collegano i giacimenti dei Quattro Cavalieri del Mar Caspio ai consumatori europei. Nel 2009 una disputa tra Putin e Timoshenko sulle forniture di gas trans-ucraine della Russia causò un enorme aumento dei prezzi del gas in Europa. Nell’ottobre 2013, il Fondo monetario internazionale incontrò funzionari ucraini per discutere della presunta “crisi del bilancio” del Paese. Il braccio armato dei bankster chiese che l’Ucraina raddoppiasse i prezzi al consumo di gas naturale ed energia elettrica, svalutasse la moneta, tagliasse i finanziamenti statali a scuole e anziani, e togliesse il divieto di vendita dei suoi ricchi terreni agricoli agli stranieri. In cambio all’Ucraina fu promessa la miseria di 4 miliardi di dollari. Janukovich disse al Fondo monetario internazionale di sparire e la Russia si presentò subito promettendo energia più economica e dichiarando che avrebbe acquistato 15 miliardi di obbligazioni ucraine. Janukovich era ormai sulla lista dei nemici dei bankster, e il resto è storia.
00-ukraine-map-04-11-06-141Dean Henderson è autore di cinque libri: Big Oil & Their Bankers in the Persian Gulf: Four Horsemen, Eight Families & Their Global Intelligence, Narcotics & Terror Network, The Grateful Unrich: Revolution in 50 Countries, Das Kartell der Federal Reserve, Stickin’ it to the Matrix & The Federal Reserve Cartel. Potete iscrivervi gratis al settimanale Left Hook.
Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora

"L’Arabia Saudita ha fondato l’Isis e appoggia Al Qaeda". Se ve lo dice lui ci dovete credere per forza...

 "L’Arabia Saudita continua ancora oggi con la politica di sostegno al terrorismo armando Al Qaeda in Yemen"
da al manar - L’ex ambasciatore Usa in Siria, Robert Ford, ha pubblicato un articolo sulla rivista Foreign Policy in relazione al fallimento della politica degli Stati Uniti nei confronti della Siria e ha rivelato il ruolo dell’Arabia Saudita come fondatore dell’Isis nella regione per destabilizzare i governi di Siria e Iraq, due alleati dell’Iran.
Ford ha spiegato che l’Isis è il risultato delle azioni della ex capo dell’intelligence saudita, il principe Bandar bin Sultan, aggiungendo che tale piano ha avuto il consenso degli Stati Uniti.
Ford ha precisato che l’Isis è stato costituito al fine di unificare i vari gruppi estremisti e i resti del partito Baath in Iraq, fedeli a Saddam Hussein, definendo questa azione come un errore storico.
L’ex Ambasciatore USA in Siria ha aggiunto che l’Arabia Saudita è stata negli ultimi tre decenni la fonte del terrorismo e dell’estremismo che si estendono in tutto il Medio Oriente e che hanno avuto gravi conseguenze non solo per la regione, ma anche per l’Europa.
Infine, il diplomatico ha affermato che l’Arabia Saudita continua ancora oggi con la politica di sostegno al terrorismo armando Al Qaeda in Yemen per contrastare i sostenitori di Ansarulá e l’esercito yemenita.

domenica 26 aprile 2015

Salvini in Puglia a maggio, ecco la lista definitiva dei suoi uomini in provincia di Foggia


noiconsalvini
Il comitato presente a Foggia in via Matteotti
Atteso Matteo Salvini in Puglia per il 10 maggio, il movimento foggiano sta cercando di portarlo anche nel capoluogo dauno. Il deputato che dal Ncd ha scelto la Lega, Barbara Saltamartini, quasi sicuramente presenterà la lista della Capitanata. Hanno scelto Adriana Poli Bortone alla Regione Puglia e una composizione di candidati che “mescola esperienza e novità coprendo tutta la provincia”. Primiano Calvo, coordinatore di ‘Noi con Salvini’, non sarà fra i nomi in corsa.
Ricompare sula piazza foggiana Rocco Petrillo, il segretario nazionale di ‘Alleanza meridionalista’ che in tempi bossiani di anatemi contro il sud dal nord si trasferì a Foggia portando il verbo leghista e mantenendo contatti con l’amministrazione diPaolo Agostinacchio. Era l’inizio del 2000. Oggi si riunisce a ‘Noi con Salvini’ e l’entusiasmo è alle stelle: “Nella mia cassetta della posta ogni giorno arrivano lettere di richiesta di adesioni….”.
Dal quel nucleo di esperienze e di contatto con gli ex missini, ritorna sulla scena dopo 10 anni Nicola Mendolicchio, l’ultimo segretario di sezione del Msi, presidente del gruppo di An nell’era di Paolo Agostinacchio e capogruppo del partito: “Dato che una casa non c’è più, ne abbiamo trovata un’altra. Condividiamo molto con la Lega, dalla battaglia no euro alla sovranità nazionale al discorso sugli immigrati”.
Tre le donne in lista: dal capoluogo Maddalena Di Natale, imprenditrice e Amalia Lobozzo, studentessa. Da ManfredoniaPatrizia Melchiorre, presidente dell’associazione di volontariato ‘Ambiente e vita’.
L’alto Tavoliere presenta Roberto Fanelli, di San Severo, oculista, ex assessore della giunta Santarelli di orientamento centrista. Qualche chilometro più in là, da Serracapriola, si impegna Michele Leonbruno, consigliere comunale in carica, ex An-Pdl, ispettore di polizia.
A Cerignola scende in campo Savino Laguardia, medico, consigliere comunale uscente, ex Pdl. Nella città di San PioSaverio Siorini, commerciate, ex attivista di Forza Nuova. Creò un nucleo locale in polemica con Mimmo Foglietta che attualmente, dopo un tentativo nella Lega, è passato alla ‘Democrazia cristiana storica’.  
“Stiamo lavorando a un documento sulla sicurezza - dice Primiano Calvo - che riguarda soprattutto i tre paesi con maggiori criticità, Cerignola, San Severo e Foggia”. Il lavoro segue il gazebo ‘Chiedo asilo anch’io’, organizzato dal coordinatore foggiano del movimento Gianluigi Nigro “per sensibilizzare sulla questione del trattamento degli immigrati rispetto ai quali gli italiani sono discriminati”. L’iniziativa si è svolta su scala nazionale.
http://www.immediato.net/2015/04/26/salvini-in-puglia-a-maggio-ecco-la-lista-definitiva-dei-suoi-uomini-in-provincia-di-foggia/

domenica 12 aprile 2015

Un Def... da campagna elettorale

Non ci saranno tagli di spesa e non ci sarà un aumento di tasse. Il bilancio dello Stato è sotto controllo e il futuro è roseo. Queste le assicurazioni fornite da Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan sul Documento di economia e finanza che verrà reso noto venerdì prossimo. Un Def che, per forza di cose, dovrà tenere conto della imminente scadenza delle elezioni amministrative e della collegata necessità di non togliere troppe risorse finanziarie alle clientele locali, dalle quali il PD trae buona parte dei propri consensi.
I comuni sono infatti inviperiti per i tagli già subiti in nome della spending review, e per quelli in cantiere, anche se il capo del governo ha insistito nel sostenere che parlare di tagli è improprio. Ma anche se Renzi volesse definirli come “riqualificazione” e “razionalizzazione” della spesa, la sostanza cambierebbe poco. Un Def che poi, ovviamente, dovrà recepire le indicazioni che vengono dalla Commissione europea che, oltre a rimarcare in ogni occasione il livello del nostro debito pubblico, il secondo in Europa dopo quello greco, insiste nel richiedere misure sempre più incisive per favorire la crescita economica che, se nel resto dell'Unione europea è ancora troppo bassa, in Italia non è che un pallido ricordo. In seguito alle misure già varate dal governo, hanno garantito Renzi e Padoan, il debito calerà quest'anno al 132,5% rispetto al Prodotto Interno Lordo e nel 2016 al 130,9%. Poi a seguire sarà un percorso trionfale fino al 123,4% raggiunto nel 2018. Il disavanzo a sua volta scenderà al 2,6% a fine dicembre, all'1,8% nel 2016 per poi essere azzerato nel 2018.
Al di là di previsioni che lasciano il tempo che trovano, Renzi vuol dare l'idea che l'Italia è tornata “virtuosa” e che ha tutte le potenzialità per restarlo davvero. La spending review, liberando risorse da destinare alla crescita, farà sentire tutti i suoi effetti positivi. E un contributo non indifferente alla riduzione del debito lo forniranno le privatizzazioni di aziende pubbliche come Enav, Poste e STMicroelectronics che daranno ai mercati finanziari la garanzia che l'Italia intende continuare nello smantellamento della propria industria pubblica.
In realtà a Palazzo Chigi vi sono più speranze che certezze. Né del resto potrebbe essere diversamente. La speranza è che, grazie alla attuale bonaccia finanziaria, si pagheranno interessi minori sul debito pubblico. Renzi si è detto certo che gli acquisti di titoli pubblici a lungo termine da parte della Banca Centrale Europea, attualmente in portafoglio alle banche, terranno basso il livello dei tassi di interesse e offriranno ai singoli Paesi, l'Italia in primo luogo, maggiori spazi di manovra per risistemare i conti pubblici. Più semplicemente, la speranza dell'Italia che lavora e produce è che le suddette banche la smettano con la stretta creditizia e tornino a prestare soldi alle piccole e medie imprese nazionali che rappresentano la spina dorsale del nostro sistema industriale e che, di conseguenza, la crescita economica diventi una realtà concreta. Il Def si mostra in tale ottica molto ottimista anche se Padoan ha messo le mani avanti per sottolineare di essere stato semmai molto prudente. Quest'anno dovremmo avere (il condizionale è d'obbligo) un aumento dello 0,7% del Pil, seguito da un più 1,4% e un 1,5% nei prossimi due anni.
Ma i dati ufficiali dei primi due mesi dell'anno, forniti peraltro dallo stesso Tesoro, offrono uno scenario sconfortante. Se infatti le imposte dirette sono aumentate dell'1,9%, quelle indirette sono assolutamente negative. Il gettito dell’Iva è infatti calato del 5,6% e questo significa che il fatturato delle imprese continua la sua tendenza al ribasso, sia per il calo della domanda interna (i cittadini hanno sempre meno soldi a disposizione) che per il calo degli ordinativi proveniente dall'estero. Se le cose stanno così, si deve trarre la conclusione che nemmeno il Jobs Act, la riforma “strutturale” per eccellenza, che di fatto ha liberalizzato i licenziamenti, produrrà effetti positivi sull'occupazione. Se il mercato non tira, poche imprese infatti saranno invogliate ad assumere.
Resta così la sostanza del Def che prevede di continuare nella politica di austerità avviata dagli ultimi governi e che non potrà che scontrarsi con gli interessi locali. I tagli di spesa negati da Renzi per il 2015 sono stati l'occasione per la minoranza interna (un tempo maggioranza) del PD per contestare Renzi, con Stefano Fassina che ha parlato di manovra "recessiva e iniqua" perché inciderà sulla sanità e sull'assistenza e colpirà le fasce economicamente più deboli. Nonostante le proteste, Renzi sa però di poter avanti. La minoranza interna del PD appare come la classica pulce che tossisce mentre il centrodestra semplicemente non esiste. Infatti il governo di sinistra sta attuando di fatto il programma di destra che per anni Berlusconi aveva predicato. Quella “rivoluzione liberale” che aveva rappresentato il leit motiv della sua discesa in campo nell'ormai lontano 1994.
Filippo Ghira

Un’alleanza contro la finanza

Il termine crisi può essere sovrautilizzato. Tuttavia, la situazione in cui ci si trova a vivere oggi possiamo descriverla come uno stato di crisi perenne. I programmi e i discorsi che dominano la politica in Gran Bretagna e, più in generale, in Occidente, sono inadeguati rispetto agli obiettivi che si prefiggono di raggiungere. L’austerità non è una soluzione a problemi quali l‘instabilità dei sistemi economici, le diseguaglianze o la scarsa crescita. Allo stesso modo, l’allargamento della Nato e la messa in atto di una nuova guerra fredda nei confronti della Russia capitalista non è una risposta alle problematiche connesse alla sicurezza dell’occidente. O, ancora, il supporto e il finanziamento di gruppi paramilitari in Medioriente, nel tentativo di ottenere cambi di regime finalizzati a garantire l’approvvigionamento delle materie prime energetiche all’occidente, tende esclusivamente a peggiorare le situazioni (si tratti di combattere il terrorismo, di garantire al sicurezza energetica o di salvaguardare i diritti umani) che si tenta di stabilizzare per quella via.
Nei prossimi cinque anni potremo verificare invece che strategie opposte – di riconciliazione e scambi commerciali come quella avviate tra gli Stati Uniti e Cuba – tendano a garantire risultati di gran lunga migliori di quelli ottenibili mediante ostracismi, sanzioni e assedi come quelli portati avanti nei cinque decenni precedenti. Un simile cambio di rotta dovrebbe essere assunto anche nelle relazioni con Iran e Russia. E’ necessario che molte voci si levino, per quanto scomode esse possano apparire, per smascherare le incongruenze tra i parametri che guidano le politiche ufficiali e la situazione reale. Solo a quel punto alcune patologie dei sistemi politici contemporanei (quali le mobilitazioni contro i migranti o contro l’Islam in Europa) potranno essere riconosciute come tali.
Gramsci ha definito in modo memorabile la differenza tra ‘guerra di movimento e ‘guerra di posizione’. La prima definisce quell’insieme di circostanze per cui un cambiamento radicale dei rapporti forza politici è ottenibile in un'unica ed immediata soluzione. Egli aveva in mente condizioni politiche propriamente rivoluzionarie, ma la medesima definizione potrebbe attagliarsi anche alla situazione che ha visto l’ascesa al potere dei Laburisti nel 1945 o della Thatcher nel 1979. Una ‘guerra di posizione’ è invece una situazione in cui tale cambiamento nell’equilibrio dei poteri non è ottenibile in modo immediato, ma in cui è comunque possibile acquisire posizioni utili in una prospettiva di lungo periodo.
Oggi ci troviamo in una situazione di guerra di posizione. Il valore di una vittoria del Labour o di un governo a guida laburista nel Maggio 2015 non trasformerà, di per sé, la politica o la società ma potrebbe contribuire a creare le condizioni per cui un nuovo pensiero e un nuovo tipo di azioni politiche siano nuovamente possibili. Fenomeni cruciali dell’ultimo trentennio come la trasformazione in senso individualistico della società, l’instaurazione delle privatizzazioni e del consumo di massa come paradigmi dominanti, non sono processi invertibili nel giro di cinque o dieci anni attraverso le politiche estremamente caute e compromissorie proposte dalla socialdemocrazia. Ma, in questo contesto, perlomeno potrebbe essere un po’ più probabile che lo spazio per nuove organizzazioni, nuovi centri di potere, nuove identità e forme di resistenza al mercato si creino, fornendo le basi per la costruzione per un rinnovato e migliore ordine sociale. Noi crediamo che in questa fase sia estremamente necessario adottare un visione di lungo periodo (…).
Consideriamo alcuni aspetti chiave del quadro che abbiamo di fronte. Il nostro lavoro ha messo in luce come la socialdemocrazia sia, oggi, definitivamente morta. E non per quanto riguarda le strutture formali – rimarranno in piedi, per quanto fortemente trasformati, lo stato sociale così come alcuni meccanismi di redistribuzione. Piuttosto, sono scomparsi l’ethos e lo spirito della socialdemocrazia; si tratta della rottura e della frammentazione di ciò che la socialdemocrazia ha significato per il ‘senso comune’, di quanto il nostro linguaggio è stato trasformato. Siamo ad un punto dal quale non è possibile tornare indietro (…).
Oggi al centro c’è la finanziarizzazione. Questo è il cuore delle diverse dinamiche attraverso cui si dispiega oggi l’egemonia neoliberista. È la parte che tiene assieme il tutto. E’ il ‘nemico comune’ di conflitti apparentemente animati da obiettivi diversi. È possibile, dunque, che l’opposizione alla finanziarizzazione divenga l’elemento chiave capace di legare tra di loro battaglie diverse, capace di costruire una frontiera politica comune, una cosiddetta ‘alleanza contro la finanza’? Un’alleanza di questo tipo è ciò che viene proposto nel ‘Green New Deal’(…)
Il tema delle diseguaglianze e dell’effettività dei sistemi democratici sono centrali nella contestazione del potere e della legittimità del neoliberismo inteso come sistema. Qualunque vincolo troverà di fronte a sé un futuro governo britannico alternativo a quello attuale, la sua capacità di ridurre le diseguaglianze e di rafforzare il funzionamento degli strumenti democratici rappresenterà la vera misura della sua efficacia (…).
I temi dell’ambientalismo non sono essenziali solo per quel che riguarda la nostra sopravvivenza futura; essi sono parte integrante del nostro discorso politico complessivo, un’arena nella quale una miriade di nuove frontiere politiche possono essere aperte (…).
La sfida, dopo questi anni di ascesa del neoliberismo, è quella di costruire un modo di pensare e di sentire nuovo che consenta si unificare diverse battaglie e di connettere le persone coinvolte in ciascuna di esse. C’è bisogno di rispetto per la diversità, per le specificità di ciascuna sfera della vita, ed il riconoscimento di quelli che debbono essere i concetti guida fondamentali come la giustizia, l’eguaglianza e la democrazia profonda. L’obiettivo è quello di creare e sostenere un rinnovato consenso attorno a questi valori, facendo sì che, nel tempo, i governi eletti trovino la fiducia necessaria a rafforzare i medesimi valori attraverso le loro decisioni.
(Traduzione di Dario Guarascio)
Fonte: Sbilanciamoci| Autore: Doreen Massey , Michael Rustin
Presentiamo qui alcune parti del capitolo conclusivo “Displacing neoliberalism” del volume “After neoliberalism? The Kilburn Manifesto (Lawrence and Wishart, 2015) curato da Stuart Hall, Doreen Massey e Michael Rustin. Si tratta di una delle migliori analisi e proposte su come uscire dal neoliberismo, una versione italiana è in preparazione. Il testo completo è scaricabile gratis dahttp://www.lwbooks.co.uk/journals/soundings/manifesto.html

Yemen: un altro episodio della strategia del caos

L’apertura di un nuovo fronte, quello yemenita, nel vicino Oriente, mette a nudo tutto il viluppo di contraddizioni create da una politica dissennata. Appare con evidenza l’imbarazzo di Obama e della sua Amministrazione davanti a un conflitto che vede come veri antagonisti Arabia Saudita e Iran, rispettivamente alla testa dello schieramento sunnita e di quello sciita.
Ogni Presidente ambisce a lasciare una traccia nella storia. Obama sta vantando nella sua politica interna l’uscita dalla crisi drammatica apertasi nel 2008 e l’inizio della ripresa economica. Il fatto che sia una ripresa fragile e drogata non gli impedisce di attribuirsene il merito e di spacciarla come una svolta profonda e duratura. Gli manca un grande successo nella politica estera, quella che più si imprime nella memoria storica. Un successo che giustifichi il premio Nobel attribuitogli sulla fiducia.
Il suo obiettivo era legare il nome della sua presidenza a un accordo di pace fra Israele e i palestinesi. L’intransigenza di Netanyahu ha frustrato questo disegno, il che fa comprendere il motivo dei rapporti personali tesi fra i due. Allora Obama ha ripiegato su quella che sarebbe stata un’altra svolta storica, la riconciliazione fra USA e Iran. La guerra nello Yemen rende più difficile anche il conseguimento di questo obiettivo.
Obama non vorrebbe pregiudicare il possibile accordo con l’Iran sul nucleare, accordo strumentale che dovrebbe aprire la strada a un’intesa più ampia rivolta ad allentare i legami che l’Iran ha con Russia e Siria, ma nel contempo non può rompere con l’Arabia Saudita, alleato preziosissimo e insostituibile in quello scacchiere decisivo per gli equilibri internazionali e per le sorti del mondo. Lo schieramento sunnita anti sciita e quindi anti iraniano comprende tutte le pedine che gli USA utilizzano da decenni: Egitto, che deve schierarsi con l’Arabia Saudita perché sono i suoi petrodollari che lo tengono in piedi, Giordania, Qatar, Emirati, la stessa Turchia, più defilata ma comunque solidale con la causa sunnita e membro della NATO.
D’altra parte un impegno militare diretto americano accanto ai sunniti comprometterebbe ogni dialogo con l’Iran. I pasticci combinati dalle ripetute aggressioni imperialiste si manifestano nel posizionamento del governo iracheno. Essendo fortemente connotato dalla preponderanza sciita, che non può rinunciare agli ottimi rapporti con l’Iran, necessari anche per impedire che il Califfato giunga fino a Baghdad, quel governo, che pure fu insediato dagli americani, non può schierarsi col fronte sunnita.
Un’altra conseguenza probabile dello scontro fra sauditi e iraniani in Yemen è l’allentamento della morsa sul Califfato. I guerrieri dello Stato Islamico sono i più feroci nemici dello sciitismo, quindi possono fare comodo allo schieramento sunnita. Inoltre l’impegno delle forze aeree arabe sul fronte yemenita sottrae un supporto ai bombardamenti, del resto tutt’altro che intensi, che USA e alleati occidentali effettuano contro le basi dello Stato Islamico.
Non è inoltre da trascurare l’ipotesi che una guerra prolungata nell’area del Golfo faccia di nuovo schizzare in alto il prezzo del petrolio, vanificando la manovra che americani e sauditi hanno presumibilmente concordato per farne crollare il prezzo e mettere in ginocchio la Russia.
Infine si allontana l’obiettivo di allentare i legami fra Iran e Russia. Anzi, l’immediata presa di posizione a favore dell’Iran da parte del governo russo, consolida un’alleanza di fatto. Fra Russia, Iran, Siria ed Hezbollah libanesi si rinsalda una comunità di intenti e di solidarietà operativa, mentre l’altro schieramento è attraversato da continui sbandamenti.
Si evidenzia così come la strategia di seminare il caos attraverso una serie di devastanti aggressioni abbia imprigionato la diplomazia americana in una ragnatela in cui ogni movimento in qualsivoglia direzione non fa altro che invischiarla più saldamente nella rete.
C’è un solo attore che continua a trarre giovamento dalla strategia del caos, un attore che ha operato con intelligenza strategica e coerenza, assistendo compiaciuto alla disintegrazione degli Stati confinanti e non mostrando la minima preoccupazione per l’espansione dello Stato Islamico e dei suoi tagliagole: Israele. Tuttavia il caos è per definizione ingestibile. Dal caos può scaturire qualunque cosa, anche la più imprevedibile. Di questo dovrebbero tener conto anche a Gerusalemme, dove tramano cervelli più informati sulle dinamiche di quell’area e più lungimiranti di quelli che gravitano attorno allo sprovveduto Obama.
Luciano Fuschini

Via il fiscal compact per sostenere l’occupazione

L’esigenza primaria è quella di sostituire il fiscal compact e l’ossessione del raggiungimento del, peraltro mal definito, pareggio di bilancio strutturale con una politica fiscale focalizzata sul conseguimento di livelli di occupazione elevati e sostenibili; a tal fine va costruito un accordo tra gli stati membri dell’Unione Economica e Monetaria, che potrebbe, come accaduto nel caso del fiscal compact , coinvolgere anche altri stati membri della UE. Tuttavia, se la politica fiscale può aiutare il raggiungimento di elevati livelli di occupazione, essa deve comunque essere accompagnata da una serie di altre politiche. In primo luogo, servono politiche occupazionali e del mercato del lavoro che sostengano l’occupazione, che sostituiscano quelle “riforme strutturali” finalizzate a ridurre i salari, che aumentano la disuguaglianza e sono spesso dannose anche per l’occupazione. Assieme alla politica fiscale, sono anche necessarie politiche industriali e regionali indirizzate alla costruzione della capacità produttiva e all’assorbimento dei disavanzi delle partite correnti.
È della massima urgenza sostituire all’obiettivo del pareggio strutturale di bilancio, e all’associato impatto deflazionistico, politiche fiscali coordinate, costruite per aumentare la domanda e l’occupazione. La politica fiscale dovrebbe essere riorientata per rispondere alla mancanza di posti di lavoro attraverso una spesa pubblica di migliore qualità, che comprenda la promozione di investimenti “verdi” ecocompatibili, la fine dell’attacco alla spesa sociale, e il re-indirizzamento della tassazione in senso più progressivo (la qual cosa, da sola, tenderebbe a ridurre i deficit di bilancio). La politica economica deve indirizzarsi verso una coordinata reflazione, piuttosto che verso l’attuale coordinata austerità. E’ importante che la BCE (insieme alle banche centrali dei paesi fuori dall’area euro) conceda il pieno sostegno a politiche fiscali per la prosperità e non persista in pressanti richieste di consolidamento fiscale.
A lungo si è sostenuto che una moneta unica necessita di una politica fiscale a livello federale dotata di significativa capacità di prelievo, di un adeguato livello di spesa pubblica e della possibilità di incorrere in deficit o surplus di bilancio. Una politica fiscale federale (se correttamente applicata e non soggetta a disposizioni per il pareggio di bilancio) agirebbe da ammortizzatore in caso di contrazioni dell’attività economica sia a livello federale, che nazionale o regionale, e offrirebbe la possibilità di effettuare trasferimenti fiscali tra le regioni più ricche e quelle più povere. La tassazione federale sostituirebbe parzialmente quella nazionale e dovrebbe essere strutturata in maniera progressiva, così da aumentare le sua efficacia di stabilizzazione. È difficile calcolare con precisione la scala di tassazione a livello federale necessaria per scopi di stabilizzazione ma, per essere veramente efficace, può valutarsi un ordine di grandezza più vicino al 10% del Pil della UE che all’attuale 1%. La costruzione di una politica fiscale federale è un progetto molto a lungo termine, ma indispensabile al corretto funzionamento della moneta unica. Lo sviluppo di un bilancio federale, in ogni caso, non è da perseguire esclusivamente sulla base del fatto che tale bilancio e i trasferimenti sociali ad esso associati sono necessari per completare l’Unione Monetaria. Infatti, un appropriato design del prelievo fiscale e dei programmi di spesa del bilancio federale, che, come detto, dovrebbero rispondere a generali criteri di progressività, avrebbe anche effetti di stabilizzazione economica e di riduzione delle disuguaglianze.
(Traduzione Alessandro Castiello D'Antonio)
| Fonte: sbilanciamoci | Autore: EuroMemorandum

Ministro Martina, smettetela L’appello del Comitato ‪#‎difendiAMOgliulivi‬.

Dopo la magnifica manifestazione di popolo di Piazza Sant’Oronzo a Lecce il 29 marzo 2015, cui hanno partecipato globalmente non meno di 15.000 cittadini provenienti dalla provincia di Lecce, dalla Puglia e dalle altre Regioni Italiane (leggi Il popolo degli ulivi, ndr), cui hanno aderito perfino le comunità italiane emigrate nei paesi del Nord Europa, il fronte di chi vuole a tutti i costi la eradicazione degli alberi di ulivo e i trattamenti fitosanitari contro i vettori si sta pian piano sgretolando, e con esso l’allarmismo colpevole pilotato ad arte per futili vantaggi. Lo stesso Commissario Giuseppe Silletti in un approfondimento su Rai 3 Puglia del 4 aprile ha detto che nessuno potrà espiantare se non ci saranno le prove che la situazione dell’albero è irreversibilmente compromessa.
Che cosa può essere accaduto?
Innanzitutto è stato compreso che il Piano Silletti, nella sua mastodonticità, è praticamente irrealizzabile, perché è impossibile – oltreché inutile e dannoso – con quelle poche risorse a disposizione procedere all’espianto e perfino alla attuazione delle cosiddette buone pratiche agricole. In secondo luogo i primi ricorsi al Tar e l’inchiesta della Procura di Lecce hanno gelato le spinte verso l’attuazione delle misure di eradicazione-irrorazione chimica, anche per evitare di trovarsi, da parte dei soggetti attuatori, a dover rispondere di reati come quello di disastro ambientale, lesioni, omissione, o altri possibili reati di “Agromafia”. Ma soprattutto è accaduto che voci sempre più insistenti di accademici di università italiane e straniere, come il professor Cristos Xiloyannis (UniBas) ma anche studiosi delle università della California, vanno ripetendo che è del tutto assurdo mettere in piedi una guerra contro un batterio come quello della Xylella, e che bisogna portare invece l’albero di Ulivo e l’intero sistema suolo/albero a convivere con questo batterio e a “tollerarlo”, portare cioè l’albero – come raccomanda anche la saggezza popolare – a condizioni di salute ottimale, senza chimica e senza forzature meccaniche.
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Infine c’è un altro fatto importante di queste ore: i volontari del comitato‪#‎salviAMOgliulivi‬ hanno avuto accesso a una ricerca dell’università della California del 2014 dal titolo “Valutazione dell’olivo come pianta ospitante la xylella fastidiosa e insetti vettori associati”, pubblicata su “Plant Disease” 2014; uno studio “in progress” da diversi anni su questo fenomeno, e che si concentra in particolare questa volta sugli alberi d’ulivo (olea europea) che mostrano sintomi di foglie bruciate o rami secchi in California. Queste le conclusioni della ricerca: 1) soltanto una percentuale pari circa al 17% degli alberi “malati” (con essiccamenti) sono risultati positivi alla X. Fastidiosa dalla reazione a catena della polimerasi; 2) nella inoculazione meccanica in laboratorio tutti i dati indicano che la X. Fastidiosa non solo non è la causa del disseccamento delle foglie e dei rami degli ulivi, ma che il batterio si depotenzia fino alla perdita della sua energia dopo 24 settimane; 3) l’olivo può anche rappresentare un rifugio in cui i vettori sfuggono ai trattamenti insetticidi diffusi degli agrumi, il principale metodo di controllo usato in California per limitare le popolazioni di cicaline e, indirettamente, le epidemie della malattia di Pierce delle viti.
Alla luce di tutto questo chiediamo al Ministro dell’Agricoltura Martina di mettere immediatamente in atto le seguenti misure:
1. Blocco immediato del Piano Silletti nella parte delle eradicazioni e del trattamento fitosanitario, per le carenze sul piano scientifico di riferimento, anche per evitare di creare danni irreversibili al patrimonio olivicolo e paesaggistico salentino, oltre che una conflittualità sociale inutile tra Stato e Cittadini su un tema così delicato di Bene Comune che è l’agricoltura.
2. Istituzione di una equipe multidisciplinare plurale e trasparente, coordinata dal professor Cristos Xiloyannis dell’Università della Basilicata, che studi tutte le nuove evidenze e metta in piedi in 3 mesi un nuovo piano di contrasto del Co.Di.Ra.O.
3. L’Italia si faccia promotrice di una ricerca approfondita sul tema della Xylella e del Disseccamento Rapido degli ulivi, coinvolgendo i migliori centri di ricerca presenti nel nostro territorio e in Europa, diventando un punto di riferimento del Continente.
4. L’Italia faccia esplicita richiesta in seno al prossimo Consiglio Europeo di fermare gli espianti e i trattamenti fitosanitari perché inutili e non efficaci al fine del controllo del Co.Di.Ra.O.
5. L’Italia metta in atto un piano di investimenti sulla occupazione nel settore agricolo nel Salento, con sgravi alle imprese che assumono lavoratori adeguatamente formati da destinare alla olivicoltura.
6. L’Italia chieda alla UE l’immediato sblocco dell’embargo della Francia verso i prodotti pugliesi.
7. L’Italia chieda controlli a tappeto per la ricerca del Batterio della Xylella anche negli altri paesi mediterranei, in particolare la Francia, la Spagna e la Grecia.
8. L’Italia chieda maggiori riscontri sulle responsabilità del traffico delle Piante nel Porto di Rotterdam e sui mancati controlli.
Contatti: cell. 3356458557 – sede c/o CSV Salento – via Gentile 1, LECCE

Obama eredita la guerra yemenita dell’Arabia Saudita

MK Bhadrakumar, Indian Punchline 10 aprile 2015
Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora
L’intervento militare saudita sostenuto dagli USA nello Yemen entra in una fase pericolosa. Chiaramente, gli attacchi aerei sauditi, guidati dai servizi segreti e con logistica degli USA, non hanno avuto alcun impatto, finora, sulla campagna di Ansarullah per prendere il controllo della città portuale di Aden. Ma il Pakistan potrebbe aver inferto un colpo mortale alla campagna statunitense-saudita. Il parlamento del Paese ha chiesto all’unanimità che il Pakistan rimanga neutrale nel conflitto nello Yemen, tranne nell’eventualità improbabile che l’integrità territoriale dell’Arabia Saudita sia violata. In termini operativi, ciò significa che il Pakistan non parteciperà a un qualche attacco via terra allo Yemen, che a sua volta significa che l’intervento saudita sarà seriamente limitato dato che esperti ed analisti militari dubitano dell’efficacia saudita nell’ottenere risultati validi con i soli attacchi aerei. Senza il Pakistan, la tanto decantata “coalizione” saudita diventa un macabro scherzo. Si legga l’articolo del Guardian qui, sull’effettiva composizione della cosiddetta coalizione saudita. E’ fuori discussione che il feldmaresciallo egiziano Abdalfatah al-Sisi abbia dimenticato che l’Egitto di Nasser si bruciò le dita nello Yemen. A dire il vero, l’Iran continuerà a fare pressioni sull’Arabia Saudita. La Guida Suprema Ali Khamenei ha usato eccezionalmente un linguaggio duro per condannare l’intervento saudita nello Yemen, definendolo “genocidio”. Naturalmente, l’intervento iraniano diretto nello Yemen è da escludere. L’Iran non ricorre all’avventurismo militare. (Leggasi il mio Yemen: si muove la diplomazia dell’Iran). In ogni caso, l’Iran lentamente e costantemente cuoce la leadership saudita nel bollente calderone yemenita. Gli huthi possono far mangiare la polvere ai sauditi, come Khamenei ha avvertito. Teheran potrebbe decidere che la debacle in Yemen aggraverebbe la lotta nella Casa dei Saud e le riforme delle arcaiche strutture di potere del Paese potrebbero divenire inevitabili, in particolare rafforzando le oppresse comunità sciite nelle province confinanti con lo Yemen.
Tutto ciò costringe l’amministrazione Obama a una correzione, gli Stati Uniti potrebbero considerare tale guerra come propria in un futuro molto prossimo. L’unica cosa buona per Washington, finora, sono i sauditi che velocemente esauriscono le scorte militari e un ordine miliardario per altri acquisti di armamenti statunitensi è sicuramente previsto. Ciò, a favore di Obama, crea molti nuovi posti di lavoro nell’economia statunitense. Ma c’è uno scenario cupo, altrimenti. Gli Stati Uniti speravano contro ogni aspettativa che il Pakistan svolgesse il tradizionale ruolo di coolie delle strategie regionali degli Stati Uniti. Ora, gli Stati Uniti non hanno altra alternativa che un diretto interventismo per salvare il prestigio dell’alleato chiave, la Casa dei Saud. Ma è dubbio che Obama inizi una guerra nello Yemen coinvolgendo forze statunitensi. La cosa più intelligente sarebbe teleguidare la guerra saudita e capitalizzarla politicamente. Allo stesso modo, per ora c’è la consapevolezza che in realtà non si tratta di un conflitto tra sunniti e sciiti, ma di lotte fratricide per l’emancipazione politica. Gli huthi sono zayditi sciiti, ma dottrinalmente più vicini ai sunniti. Ciò che accade nello Yemen è l’inevitabile ricaduta della primavera araba fallita quattro anni fa.
Stati Uniti e Arabia Saudita pagano un prezzo pesante per manipolare la trasformazione democratica dello Yemen e il loro errore d’imporre un nuovo fantoccio al potere al posto dello screditato vecchio burattino dei sauditi Muhamad Salah. Tutto sommato, il conflitto nello Yemen diventa la principale crisi regionale dell’amministrazione Obama. La cosa migliore sarà avviare una mediazione guidata dal Consiglio di sicurezza dell’ONU. Obama dovrebbe discutere la questione dello Yemen con i suoi omologhi del Consiglio di sicurezza dell’ONU e cercare un consenso. Il tempo è l’essenza della questione, tanto più che al-Qaida è in attesa dietro le quinte. Dopo tutto ciò che è accaduto, è praticamente impossibile insediare un altro fantoccio dei sauditi a Sana. Un accordo inclusivo per condivisione il potere con gli huthi è inevitabile, se si cerca una pace duratura. Non sarà un male se accade, non per la profonda politica tribale del Paese. Con le vittime civili che aumentano di giorno in giorno, lo Yemen potrebbe presto subire un’ondata di sentimenti anti-sauditi, che potrebbe rivelarsi il Vietnam del regime saudita. Si legga l’ottimo commento sulla rivista Foreign Policy.

BEN BERNANKE: IL SURPLUS COMMERCIALE DELLA GERMANIA È UN PROBLEMA

Ben Bernanke, l’ex capo della Federal Reserve, esprime le ben note preoccupazioni statunitensi per il gigantesco surplus commerciale tedesco: mentre infatti la “temuta” Cina ha intrapreso da tempo un percorso di riequilibrio del proprio percorso di crescita, oggi è la Germania che emerge come portatore globale di squilibrio. Per chi legge regolarmente questo blog o Goofynomics non c’è nulla di nuovo, però è interessante che Bernanke metta nero su bianco le due cause fondamentali del problema: l’euro e le politiche mercantiliste della Germania.
di Ben Bernanke, 2 aprile 2015
Tra poche settimane il Fondo Monetario Internazionale e altri gruppi internazionali, come il G20, si incontreranno a Washington. Quando partecipavo a questi incontri internazionali in qualità di presidente della Fed, i delegati discutevano a lungo la questione degli “squilibri globali” —cioè il fatto che alcuni paesi avessero ampi surplus commerciali (vale a dire esportazioni molto maggiori delle importazioni) e che altri (gli Stati Uniti in particolare) avessero ampi deficit commerciali. (Un mio recente post discute le implicazioni degli squilibri globali dal punto di vista del risparmio e dell’investimento.) La Cina in particolare, che manteneva il cambio svalutato per promuovere le proprie esportazioni, riceveva critiche per i suoi ampi e persistenti surplus commerciali.
Tuttavia negli ultimi anni la Cina ha lavorato al fine di ridurre la sua dipendenza dalle esportazioni, e i suoi surplus commerciali sono, di conseguenza, diminuiti. La parte del maggiore esportatore netto, sia in termini assoluti che relativi rispetto al PIL, sta passando alla Germania. Nel 2014 il surplus commerciale della Germania era di circa 250 miliardi di dollari, ovvero quasi il 7 percento del suo PIL. Ciò non fa che proseguire una tendenza al rialzo che è in atto quantomeno dal 2000 (vedi sotto).
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Perché il surplus commerciale della Germania è così ampio? Indubbiamente la Germania fa dei buoni prodotti, che gli stranieri vogliono comprare. Per questa ragione molti considerano il surplus commerciale come un segno di successo economico. Ma anche altri paesi fanno dei buoni prodotti, senza però accumulare dei surplus così ampi. Ci sono due importanti ragioni che spiegano il surplus commerciale della Germania.
Primo, sebbene l’euro —la moneta che la Germania condivide con altri 18 paesi— possa (o non possa) essere al giusto livello per i 19 paesi dell’eurozona considerati come gruppo, esso è troppo debole (dati i costi di produzione e i salari tedeschi) per consentire un saldo commerciale tedesco equilibrato. Nel luglio 2014 il FMI stimava che il tasso di cambio della Germania corretto per l’inflazione era sottovalutato per un 5-15 percento (vedi FMI, p.20). Da allora l’euro si è svalutato di un ulteriore 20 percento rispetto al dollaro. L’euro relativamente debole è un vantaggio che deriva alla Germania dalla sua partecipazione all’unione monetaria abbastanza sottovalutato. Se la Germania utilizzasse ancora il deutschemark, questo presumibilmente sarebbe molto più forte di quanto sia oggi l’euro, riducendo così notevolmente il vantaggio di prezzo delle esportazioni tedesche.
Secondo, il surplus commerciale tedesco è ulteriormente incrementato da politiche (le politiche fiscali restrittive, per esempio) che comprimono la domanda interna del paese, inclusa la domanda per le importazioni.
In un mondo a crescita lenta che ha carenza di domanda aggregata, il surplus commerciale della Germania è un problema. Molti altri paesi membri dell’eurozona sono in una recessione profonda, con forte disoccupazione e nessuno “spazio di manovra fiscale” (con ciò si intende che la loro situazione fiscale non gli permette di aumentare le spese o di tagliare le tasse in modo da stimolare la domanda interna). Nonostante segni di ripresa negli Stati Uniti, la crescita è in generale abbastanza lenta anche fuori dall’eurozona. Il fatto che la Germania venda così tanto di più di quanto compri, reindirizza su di sé la domanda dei suoi vicini (così come quella di altri paesi in tutto il mondo), riducendo la produzione e l’occupazione al di fuori della Germania, in un momento in cui la politica monetaria in molti paesi sta raggiungendo il limite.
Squilibri persistenti all’interno dell’eurozona sono poco sani anche perché portano a squilibri finanziari e a crescita sbilanciata. Idealmente, le riduzioni dei salari negli altri paesi dell’eurozona rispetto ai salari tedeschi dovrebbero ridurre i relativi costi di produzione e aumentare la competitività. Su questo fronte sono stati fatti dei progressi. Ma con un’inflazione che in eurozona è ben al di sotto dell’obiettivo della Banca Centrale Europa, “al di sotto ma vicino al 2 percento”, il raggiungimento della necessaria riduzione dei costi relativi richiederà probabilmente una forte deflazione dei salari nominali al di fuori della Germania — presumibilmente sarà un lungo e doloroso processo che prevede una prolungata ed elevata disoccupazione.
I sistemi di tassi di cambio fissi, quali l’unione dell’euro o il gold standard, hanno storicamente sofferto del fatto che i paesi con una bilancia dei pagamenti in deficit venivano sottoposti ad una forte pressione al riaggiustamento, mentre sui paesi con un surplus non era esercitata una pressione corrispondente. Il gold standard degli anni ’20 crollò per il fatto che i paesi in surplus non presero parte equamente al processo di riaggiustamento. Come raccomandato anche dal FMI nella sua relazione del luglio 2014, la Germania potrebbe contribuire a ridurre il periodo di riaggiustamento nell’eurozona e a sostenere la ripresa economica se prendesse delle misure tali da ridurre il suo surplus commerciale, mentre gli altri paesi dell’area euro continuano a ridurre i loro deficit.
La Germania ha poco controllo sul valore della moneta unica, ma ha molti strumenti politici a propria disposizione per poter ridurre il proprio surplus — strumenti che, anziché implicare dei sacrifici, farebbero stare meglio la maggior parte dei tedeschi. Qui ci sono tre esempi:
1. Investimenti in infrastrutture pubbliche. Degli studi mostrano che la qualità delle instrastrutture in Germania — strade, ponti, aeroporti — è in declino, e che gli investimenti nel miglioramento delle infrastrutture aumenterebbero il potenziale di crescita della Germania. Nel frattempo la Germania può prendere denaro a prestito per dieci anni a meno di un quinto di punto percentuale, che, aggiustato per l’inflazione, significa un tasso d’interesse reale negativo. Gli investimenti per le infrastrutture ridurrebbero il surplus della Germania attraverso un incremento del reddito interno e della domanda, mentre aumenterebbero anche l’occupazione e i salari.
2. Aumentare i salari dei lavoratori tedeschi. I lavoratori tedeschi meritano un aumento salariale considerevole, e la cooperazione tra governo, imprenditori e sindacati potrebbe consentirglielo. Salari tedeschi più alti accelererebbero il riaggiustamento dei costi relativi di produzione e al contempo aumenterebbero il reddito interno e i consumi. Entrambe le cose tenderebbero a ridurre il surplus commerciale.
3. La Germania potrebbe aumentare la spesa pubblica con delle riforme mirate, tra cui ad esempio degli incentivi fiscali per l’investimento privato interno, la rimozione degli ostacoli alla costruzione di nuove case, riforme nel settore dei servizi e della vendita al dettaglio, e una revisione delle regole finanziarie che potrebbero disincentivare le banche tedesche a investire all’estero piuttosto che in patria.
La ricerca di un migliore equilibrio commerciale non impedirebbe alla Germania di sostenere lo sforzo della Banca Centrale Europea per raggiungere il suo obiettivo di inflazione, per esempio attraverso il recente avvio del suo programma di quantitative easing. È vero infatti che politiche monetarie più espansive faranno deprezzare l’euro, il che di per sé tenderebbe ad incrementare anziché ridurre il surplus commerciale della Germania. Ma delle politiche monetarie più accomodanti in compenso hanno anche due vantaggi: primo, una maggiore inflazione nell’eurozona rende più facili da raggiungere i riaggiustamenti nei livelli salariali relativi necessari a ripristinare la competitività, dato che il riaggiustamento può avvenire attraverso una crescita più lenta, piuttosto che attraverso un effettivo calo dei salari nominali; e secondo, politiche monetarie espansive dovrebbero aumentare l’attività economica in tutta l’eurozona, Germania inclusa. (Nota di VdE: sugli effetti reali che ci si può attendere dal QE europeo, molti sono meno ottimisti, vedi qui, qui, e qui)
Spero che coloro che parteciperanno agli incontri di Washington questa primavera riconosceranno che gli squilibri globali non riguardano solo la questione tra Cina e America.

Tocco la tua bocca

Tocco la tua bocca, con un dito tocco l’orlo della tua bocca, la sto disegnando come se uscisse dalle mie mani, come se per la prima volta la tua bocca si schiudesse, e mi basta chiudere gli occhi per disfare tutto e ricominciare, ogni volta faccio nascere la bocca che desidero, la bocca che la mia mano sceglie e ti disegna in volto, una bocca scelta fra tutte, con sovrana libertà scelta da me per disegnarla con la mia mano sul tuo volto, e che per un caso che non cerco di capire coincide esattamente con la tua bocca che sorride sotto quella che la mia mano ti disegna.
Mi guardi, mi guardi da vicino, ogni volta più vicino e allora giochiamo al ciclope, ci guardiamo ogni volta più da vicino e gli occhi ingrandiscono, si avvicinano fra loro, si sovrappongono e i ciclopi si guardano, respirando confusi, le bocche si incontrano e lottano tiepidamente, mordendosi con le labbra, appoggiando appena la lingua sui denti, giocando nei loro recinti dove un’aria pesante va e viene con un profumo vecchio e un silenzio.
Allora le mie mani cercano di affondare nei tuoi capelli, carezzare lentamente la profondità dei tuoi capelli mentre ci baciamo come se avessimo la bocca piena di fiori o di pesci, di movimenti vivi, di fragranza oscura. E se ci mordiamo il dolore è dolce, se soffochiamo in un breve e terribile assorbire simultaneo del respiro, questa istantanea morte è bella. E c’è una sola saliva e un solo sapore di frutta matura, e io ti sento tremare stretta a me come una luna nell’acqua.
Julio Cortázar, Il gioco del mondo

Occupazione ferma. L'Inps smentisce Boeri e Renzi In evidenza

Non c'è niente da fare, i fatti hanno la testa dura. Ricordato i "79.000 nuovi posti di lavoro" annuniati da Tito Boeri e subito dopo da Renzi come effetto del jobs act? Tutto falso, dissero in tanti - noi compresi - a quella notizia. In realtà non si trattava di assunzioni, ma di semplici richieste di informazioni dettagliate da parte delle aziende, che volevano capire quali vantaggi avrebbero avuto se avessero assunto qualcuno con il nuovo "contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti" (ovvero a tutele zero).
E il jobs act non c'entrava nulla, perché le richieste erano arrivate tra gennaio e febbraio, quando il jobs act non era ancora operativo, mentre lo erano già gli sgravi fiscali e contributivi concessi alle imprese con la legge di stabilità. Propaganda pura, assist fornito dal neopresidente dell'Inps, fresco di nomina e animatore di punto del think tank economico "Lavoce.info", pensatoio renziano ante litteram (liberisti puri, ma con briciolo di puzza sotto il naso e smorfia di disgusto per quei brutaloni di destra stile Brunetta et similia).
La smentita è ufficiale ed ha del clamoroso, perché arriva direttamente dall'Inps; quin, idirettamente, dallo stesso Boeri (più probabilmente, non controlla ancora del tutto l'organismo che presiede). Ll’Osservatorio sul precariato dell’Inps, infatti, ha reso noti ieri i dati elaborati in base alle modificazioni occupazionali dei primi due mesi dell'anno. Il saldo finale è zero. Ovvero: non c'è un solo posto di lavoro in più rispetto a dicembre. Ovvero ancora: gli sgravi contributivi - elevatissimi - concessi dal governo non hanno convinto una sola impresa a fare una sola assunzione in più.
Ma un effetto lo hanno avuto: hanno reso talmente vantaggiosa l'assunzione con contratto "a tutele crescenti" che molti rapporti di lavoro precario (a termine, in primo luogo) sono stati trasformati dalle aziende in contratti "stabili". Non è difficile capire perché. Senza articolo 18, cancellato dal jobs act, è diventato molto semplice licenziare un dipendente che no si comporta come il padrone dipende (per esempio: sciopera). Come se fosse un precario, dunque. In più, gli sgravi raggiungono cifre davvero considerevoli (anche 7-8.000 euro l'anno), e dunque vale la pena di riassumere le stesse persone - o altre, per sostituirle - con il nuovo contratto made in Ichino (Pietro).
A gennaio e a febbraio, spiega l'Osservatorio, i nuovi rapporti di lavoro a tempo indeterminato sono aumentati del 20,7%a confronto con gli stessi mesi del 2014. Di conseguenza, è salita anche la percentuale di lavoro "stabile" (dal 37,1% al 41,6%). In cifra assoluta, sono stati attivati 307.582 contratti a tempo indeterminato, mentre sono state 78.287 le trasformazioni di contratti a termine. Sull'altro piatto della bilancia, diminuiscono i contratti a termine (-7%) e in apprendistato (-11,3%).Il totale è quasi imbarazzante: i nuovi rapporti di lavoro attivati nei primi due mesi del 2015 sono stati 968.883, solo 13 in più rispetto ai 968.870 dei primi due mesi del 2014. Vedremo se Renzi salterà su a rivendicare questi tredici posti in più dopo un anno di massacro dei diritti del lavoro...
Una dimostrazione postuma, a consuntivo (quindi inconfutabile) che le forme contrattuali precarie servivano soltanto ad abbassare i salari e rendere ricattabile la forza lavoro. Una volta raggiunto il pieno controllo padronale su queste due variabili - livello del salario e della conflittualità potenziale - si può benissimo assumere col contratto "stabile". Che garantisce qualcosa in più anche al lavoratore(ferie e malattia, ma con molta moderazione, sennò ti licenziano subito) e moltissimo al datore di lavoro (i super-sgravi ricordati prima), senza peraltro vincolarlo al mantenimento nel tempo del rapporto di lavoro.
La tabella riassuntiva dell'Osservatorio: pdftabelle_oss_precariato.pdf304.18 KB11/04/2015, 10:20

PIRELLI ACQUISTATA DALLE PARTECIPAZIONI STATALI ... CINESI

Dall'anno scorso la banca centrale cinese è diventata il secondo azionista di ENI ed ENEL. La banca centrale in Cina è di proprietà dello Stato, eppure da noi non si è mancato di far passare questa vendita di considerevoli quote azionarie dei "gioielli di famiglia" del Tesoro italiano allo Stato cinese come ... "privatizzazioni". Ma quest'anno, alla fine di marzo è arrivata anche la notizia dell'acquisto di una quota azionaria di rilievo della multinazionale italiana Pirelli da parte di ChemChina, il colosso della chimica cinese. Tra le righe, e con toni sommessi, non si è potuto mancare di farci sapere che ChemChina è una corporation a controllo statale.
Si tratta di quelle notizie che l'informazione ufficiale non vorrebbe mai essere costretta a diffondere, poiché ad un'opinione pubblica ormai addestrata a credere che il miracolo economico cinese sia dovuto al basso costo del lavoro, risulta ora ben duro spiegare che le cose non stanno affatto così. Risulta penoso ammettere che la Cina attuale adotta un sistema economico delle partecipazioni statali molto simile a quello che vigeva in Italia negli anni '60. Insomma, è tutta la propaganda sugli effetti mirabolanti che il "Jobs Act" dovrebbe determinare sulla produttività e sull'occupazione, che rischia di saltare miseramente. Tanto più che potrebbe ulteriormente diffondersi il dubbio sulla reale esistenza del "libero mercato", chiedendosi anche se, partecipazioni statali per partecipazioni statali, non sarebbe stato meglio tenersi quelle italiane invece di ricorrere a quelle cinesi.
Certo, esiste un modo di fare "opposizione" che sembra andare immancabilmente a sostegno della propaganda ufficiale, poiché, invece di smantellare con i dati di fatto le mistificazioni della cosiddetta "dura realtà del mercato globale", le si continuano a contrapporre astratte idealità da umanesimo integrale; perciò alla fiaba del mercato si offre come alternativa la nostra "Costituzione fiaba". Ad una infantilizzazione, si risponde con un'auto-infantilizzazione.
Ma non si devono sopravvalutare il ruolo ed il peso di queste forme addomesticate di "opposizione". Sono i giornali ufficiali quelli chiamati ad ovviare efficacemente proprio ad inconvenienti come quello determinato dalle notizie su ChemChina. Il quotidiano confindustriale "Il Sole-24 ore" del 25 marzo infatti ha fornito prontamente la narrazione mediatica da adottare per fronteggiare l'emergenza.
Ce la si racconta più o meno così. Sì, va bene, l'economia cinese è controllata al 70% dallo Stato, sia a livello di grandi imprese nazionali e multinazionali, sia a livello di piccole compagnie locali. Sì, d'accordo, va avanti così da decenni e tutto ciò è andato a coincidere con i tassi di crescita del 10% annuo. Ma i dirigenti cinesi non sono affatto soddisfatti di questo stato di cose, che comporta numerose inefficienze. I dirigenti cinesi perciò hanno "messo allo studio" un piano per una graduale "discesa" nelle partecipazioni statali. Neppure una deliberazione, ma un semplice "studio". Neanche si parla di un'abolizione del sistema delle partecipazioni statali, ma si ipotizza vagamente attorno ad un suo ridimensionamento. Ma questa non-notizia viene lanciata come uno "scoop" sensazionale, perciò il quotidiano confindustriale può immediatamente applicarsi ad immaginare tutti i problemi ed i nuovi scenari che questo "futuro" calo nelle partecipazioni statali comporterà nell'economia cinese. Il "futuro" è già cominciato; anzi, secondo l'organo confindustriale, del sistema delle partecipazioni statali cinesi si potrebbe già parlare al passato. Magari tra un po' ci si potrebbe anche dimenticare che sia mai esistito.
L'effetto confusionale sull'opinione pubblica così è assicurato. La vaga ipotesi di privatizzazione dell'economia cinese può essere già spacciata come un dato acquisito. La credibilità del "Jobs Act" è salva. E la fiaba del libero mercato? Salva pure quella.
In effetti è da venti anni - cioè dall'adesione cinese all'Organizzazione Mondiale per il Commercio (WTO) nel 1995 -, che il governo cinese promette un ritiro delle partecipazioni statali, solo che in questi due decenni gli impegni sono stati rigorosamente disattesi. Il WTO è un tipico patto leonino, per il quale i Paesi di serie B sono costretti a rispettare le regole, mentre i più potenti ne sono esonerati. Nemmeno nell'Unione Europea le cose vanno diversamente. Del resto, visto che il governo cinese ha imitato il vecchio sistema delle partecipazioni statali italiano, saprà anche cosa hanno portato in Italia le privatizzazioni, cioè la deindustrializzazione.
L'aneddotica ha individuato nella ormai leggendaria riunione sul Panfilo Britannia l'avvio delle privatizzazioni in Italia. In realtà, il nesso consequenziale tra privatizzazione, deindustrializzazione e finanziarizzazione è storico, e tutt'altro che casuale, dato che è stato esplicitamente teorizzato nel progetto del "Financial and Private Sector Development" della Banca Mondiale.
Le direttive che da Washington la World Bank, sino agli anni '70, riusciva ad imporre a Paesi come Burundi e Honduras, dopo la caduta del Muro di Berlino sono passate senza difficoltà anche in Europa, e sono state formalizzate nel Trattato di Maastricht. Persino la NASPI, la tipologia di indennità di disoccupazione prevista dal "Jobs Act", si riduce ad un pretesto per obbligare i precari a dotarsi di carta di credito. Questa truffa ai danni dei poveri viene chiamata "inclusione finanziaria".

La nostra destinazione non è mai una località ma piuttosto un modo di vedere le cose. Henry Miller

La nostra destinazione non è mai una località ma piuttosto un modo di vedere le cose.
Henry Miller