lunedì 1 dicembre 2014

La grotta stregata dall' oro del brigante

Nel Gargano il bottino di Jalarde rimane inviolato ma torna alla luce un tesoro di resti preistorici La serie «Amori e misteri» si conclude nelle profondità della Puglia, nella grotta Paglicci a Rignano Garganico dove nell' Ottocento il brigante Briele Jalarde avrebbe nascosto il suo bottino. Un tesoro cercato per decenni anche con l' esplosivo, sfidando le leggende sulle presenze demoniache. Ma quella caverna custodiva un altro tesoro, riportato alla luce dalle campagne di scavo degli archeologi: utensili, armi di pietra, incisioni e affreschi risalenti a ventimila anni fa. Per decenni un uomo lo ha cercato, anche con la dinamite
RIGNANO GARGANICO (Foggia) - Aveva la faccia scura come quella di un carbonaio, lo sguardo torvo e un' idea fissa: il tesoro nascosto nella grotta. E per trovarlo aveva una mappa che indicava il luogo dove un brigante dell' Ottocento aveva sepolto un baule pieno d' oro. Gliela aveva data un compagno di cella mentre si trovava in galera e quando per lui era arrivata la fine della pena, l' altro - che non sarebbe mai tornato libero - decise di rivelargli quel segreto che valeva davvero un tesoro. Dovevano essere gli anni Trenta del secolo scorso quando Leonardo Esposito uscì dal carcere con in tasca quel pezzo di carta e un pensiero solo: andare a Rignano Garganico, cercare la Grotta di Jalarde (Grotta Paglicci), trovare il punto preciso e scavare. A otto metri di profondità - gli aveva detto l' ergastolano - c' era il tesoro del brigante Briele Jalarde (Gabriele Galardi), che negli ultimi decenni dell' Ottocento aveva scorazzato rapinando e uccidendo fino ad ammucchiare una vera ricchezza. Che nascose in quella grotta, dove andava a rifugiarsi con la sua banda. Poi erano arrivati i Piemontesi e come tanti briganti meridionali anche Jalarde era finito in galera. Anno dopo anno i sogni di libertà e di tesori da recuperare erano svaniti nel nulla e così il brigante decise di confidare il suo segreto a qualcun altro che anni dopo, sempre in galera, lo regalò a Esposito. Appena libero Esposito s' arrampicò sui gradoni calcarei del Gargano sentendosi già ricco come un re. Nella sua mente brillavano monete, collane, calici, anelli, bracciali; tutti d' oro naturalmente. Ma le cose si rivelarono più complicate del previsto. Scavò nel punto indicato dalla mappa, poi un po' più in là, un po' più a fondo. Niente. Riprese a scavare, sbriciolò a mazzate macigni da far paura, spostò mucchi di terra alti come montagne, scavò gallerie come una talpa. Niente. Per settimane e mesi, finché estati e inverni cominciarono a rincorrersi anno dopo anno. Niente. Esposito capì che a forza di braccia non ce l' avrebbe mai fatta. Così ricorse alla dinamite e cercò di sbriciolare quella montagna di pietra con botti che facevano tremare mezzo Gargano. In quegli anni fu tutto un andare e venire da Sannicandro, dove abitava con la famiglia, per accumulare picconi, micce, polvere da sparo, corde, candele, dinamite, torce e mazze. Passavano gli anni e Esposito era sempre lì a frugare sottoterra, mentre pastori e contadini ridacchiavano di quell' uomo nero come un diavolo che cercava un tesoro che forse non c' era nemmeno. Ma altri dicevano che aveva trovato un Crocefisso, che nessuno aveva mai visto, ma era grande così e tutto d' oro. «Nel 1960, quando arrivai alla Grotta Paglicci col collega Franco Mezzena - racconta Arturo Palma di Cesnola, archeologo dell' università di Siena e specialista di preistoria - trovammo Esposito al lavoro. Ci disse che cercava asparagi, anche se dappertutto si vedevano i danni dei suoi scavi. Un anno dopo il professor Francesco Zorzi, direttore del museo di storia naturale di Verona, cominciò le ricerche all' interno della grotta incontrando strati molto ricchi di materiale preistorico. Ma nessun tesoro». Era l' inizio di una grande scoperta che in quasi mezzo secolo di ricerche ha fatto di Grotta Paglicci uno dei «santuari» della preistoria italiana. «I guai con Esposito cominciarono subito - continua Palma di Cesnola -. Lui era convinto che noi cercassimo il suo tesoro e per questo, appena possibile, distruggeva le nostre trincee di scavo. Non c' era modo di fermarlo e allora Zorzi lo assunse come scavatore in modo che vedesse coi proprio occhi che noi cercavamo schegge di pietra, frammenti d' ossa e non il tesoro del brigante. Ma l' espediente non servì. Appena noi ce ne andavamo, lui riprendeva a scavare in proprio. Quando nel 1971 io assunsi la direzione degli scavi e i lavori ripresero, cominciò un braccio di ferro estenuante - ricorda Palma di Cesnola -. Esposito doveva avere più di sessant' anni, ma era instancabile: lui distruggeva le nostre sezioni di scavo, io riempivo i cunicoli che lui scavava. Una lotta senza fine. Finché un giorno venne a farmi una proposta: "Tu hai i soldi e gli operai, io ho la mappa. Mettiamoci d' accordo e facciamo a metà dal tesoro". Il mio rifiuto non lo scoraggiò affatto. Anzi, con tre compari fissati come lui, scavò un pozzo profondo otto metri e con la dinamite fece crollare il tetto della grotta. Era il 1972 e ricordo quell' anno come quello di un disastro». A quel punto l' archeologo chiese l' intervento dei carabinieri che in un paio di occasioni misero Esposito in galera per «impiego non autorizzato di esplosivi». A ogni amnistia, però, usciva di galera e ricominciava. Ma con sempre meno lena perché a forza di comprare esplosivi e non fare altro che cercare il tesoro, aveva dovuto vendere un po' di terra che aveva e s' era ridotto sul lastrico. Oggi a Rignano qualcuno è pronto a giurare che il tesoro è ancora lì. E molti l' hanno anche cercato. Un anziano signore ricorda qualcosa. «Sono passati più di cinquant' anni - dice cercando tra i ricordi con qualche prudenza -. Tre compari di Rignano fecero venire un tale da Bari con un librone dove c' era scritto il modo di far parlare i diavoli. L' uomo disse che dovevano trovarsi davanti alla grotta portandoci anche una ragazzina "innocente". Per questo uno dei tre si presentò con una figliola, poco più che una bambina. L' uomo la ipnotizzò e sparse nella grotta tanti foglietti numerati. A quel punto l' "innocente" disse che vedeva una cassa piena d' oro sotterrata proprio vicino al foglietto col 70. I tre compari e il mago entrarono nella grotta - prosegue il mio informatore - e accesero delle candele per mettersi a scavare, ma sentirono un lamento profondo e un soffio d' aria spense i lumi. Tutti scapparono. Il mago si arrabbiò molto e disse che qualcuno di loro non aveva seguito le raccomandazioni che lui aveva fatto. Infatti si scoprì che uno dei tre paesani aveva all' interno della coppola un' immaginetta della Madonna col Bambino e questo aveva fatto arrabbiare il Maligno. Così il tesoro non venne trovato e il mago disse che per almeno una quindicina d' anni sarebbe stato inutile riprovare». Carmine, un uomo che nelle vicinanze della grotta di Jalarde c' è nato e ancora ci vive, ha qualcos' altro da raccontare. «Il vecchio custode della Madre di Cristo - dice indicandomi una chiesina su uno sperone roccioso assediato dagli ulivi - mi disse che alla Grotta di Jalarde ci si arrivava anche passando dalla Grotta Nera, un buco nascosto tra pietre e cespugli vicino alla chiesa. Ma una volta ho visto strane cose laggiù ed è meglio stare alla larga». Insisto, anche se non serve, e Carmine continua a raccontare. «Successe una notte di una decina d' anni fa. I cani si misero ad abbaiare e non smettevano più, mi guardai attorno e vidi una luce laggiù, vicino alla chiesa. Decisi di andare a vedere e mentre mi avvicinavo piano piano, sentii delle voci, come una cantilena. Mi affacciai da un muro e guardai nel cortile: c' erano delle persone incappucciate che stavano in cerchio attorno a un fuoco e cantavano, pregavano. Ebbi paura e scappai. Chissà, forse facevano qualche rito per trovare il tesoro». Più difficile trovare notizie del brigante Jalarde perché solo i più vecchi possono raccontare quello che sentivano dire dai loro nonni e così, a forza di passaparola, i racconti arrivano come favole sbiadite. La signora Raffaela, ormai vicina all' ottantina, ne racconta una proprio bella. «Quand' era bambino, mio nonno abitava accanto alla casa della moglie di Jalarde. Spesso la donna preparava un fagotto di vestiti puliti e li dava a mio nonno ragazzetto che senza farsi vedere da nessuno scendeva lungo i sentieri della montagna e li portava alla grotta dove il brigante e la sua banda si nascondevano coi loro cavalli. Un giorno, però, venne preso da uno dei briganti che non lo conosceva e che lo picchiò forte, dicendogli poi di non farsi più vedere da quelle parti. Proprio in quel momento arrivò Jalarde insieme ad altri briganti e visto quello che era successo, ordinò a uno dei suoi di sparare un colpo in testa all' uomo che aveva picchiato mio nonno. Lo ammazzarono all' istante - continua la signora Raffaela mettendosi le mani nei capelli - e mio nonno, spaventato, disse che non sarebbe più tornato a portare i vestiti puliti. Jalarde capì e per compensarlo di tutto quello che aveva fatto fino allora gli regalò un calice d' oro che mio nonno portò a casa e suo padre nascose all' interno di un muro. Io non so dove venne murato, ma in casa se ne parlava sempre. Poi sono passati tanti anni, i nonni sono morti, io sono diventata vecchia e la casa è stata venduta e rivenduta. La famiglia che ci vive ora non sa nulla di quel calice d' oro, ma se dovessero trovarlo dovranno ridarcelo. Appartiene alla mia famiglia, ce lo regalò Jalarde, il brigante della grotta». Io alla Grotta Paglicci ci vado di giorno e accompagnato da due guide un po' speciali, anche nei nomi: Paolo Gentile e Enzo Pazienza, fondatori delle due associazioni che per anni si sono combattute in nome della valorizzazione del patrimonio culturale di Paglicci. Ora hanno fatto fronte comune e inseguono lo stesso sogno: far conoscere la grotta e attirare visitatori. La strada per Paglicci è franata da mesi e così bisogna fare un giro largo con l' auto, poi risalire a piedi il pendio sassoso tra gli ulivi e finalmente s' arriva alla grotta. L' ingresso è dietro grandi massi e cespugli fitti, una pesante porta di ferro sbarra l' entrata. Nel pavimento dell' atrio, accanto alla parete sinistra, si apre un pozzo quadrangolare profondo 13 metri. L' hanno scavato gli archeologi in oltre quarant' anni di ricerche ed è un vero pozzo del tempo. I primi strati di terreno, quelli a livello del pavimento, hanno restituito oggetti antichi di circa 11 mila anni, ma scendendo di strato in strato, di metro in metro, gli archeologi hanno trovato testimonianze di 20 mila anni, 50 mila, 100 mila, 250 mila anni fa, e sotto ci sono ancora livelli intatti che promettono storie ancora più antiche. Una sequenza stratigrafica imponente che racconta quando c' erano altri uomini e altri climi, attraverso ossa di animali che non vivono più qui, utensili e armi di pietra, ossa incise con belle figure di animali, incisioni che fanno pensare a una forma di «scrittura» già oltre 15 mila anni fa. Ci sono anche due sepolture, una donna e un ragazzo, che raccontano riti funebri complessi e sepolture di corpi smembrati che evocano a rituali raccapriccianti. E, in fondo a tutto, nascosti nell' ultima sala dove la luce non può arrivare, ci sono due cavallini rossi dipinti sulla parete e impronte di mani aperte che dicono «io sono stato qui», ventimila anni fa. Per tutto questo Paglicci è la vera grotta del tesoro ma, come quello del brigante, anche quello preistorico non si fa vedere perché in quasi mezzo secolo di ricerche nessuno è riuscito a fare in modo che il pubblico possa almeno affacciarsi in questo scrigno. Non per i sortilegi di Satana in questo caso, ma per quelli piccini piccini dei burocrati.
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